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Cattivi Scienziati

Le macchine sono capaci di autosostentamento?

Enrico Bucci

E' possibile conferire a un oggetto creato dall’uomo quelle proprietà che normalmente attribuiamo alla vita? I risultati di un nuovo studio

Ieri abbiamo cominciato un viaggio intellettuale, per vedere se e quanto sia possibile conferire ad un oggetto creato dall’uomo quelle proprietà che normalmente attribuiamo alla vita. Ammettiamo ora che la prima caratteristica che attribuiamo normalmente agli esseri viventi, ovvero la capacità di riprodursi, sia riscontrabile anche in qualche tipo futuro di macchina autopoietica. Possiamo a questo punto esaminare una seconda capacità tipica degli esseri viventi: quella di procurarsi le risorse e l’energia necessarie per la propria vita, a cominciare e almeno per quanto riguarda quelle necessarie per la propria riproduzione. Gli esseri viventi, in altre parole, sono capaci di autosostentamento, sfruttando solo l’ambiente fisico (produttori primari, come le piante) oppure con il consumo e il processamento di altri esseri viventi.

Le macchine che abbiamo delineato nell’articolo precedente a questo dipendono da energia e materie prime fornite dall’uomo e dalla sua tecnologia; gli esseri viventi, invece, sono in linea di principio capaci di procurarsele autonomamente, con maggiore o minore efficienza (nel caso di quelli domesticati). Quanto alla fonte di energia per il proprio funzionamento, da tempo esistono macchine, inviate persino su altri corpi celesti, capaci di catturare la luce e conservare l’energia necessaria alle proprie attività. Naturalmente, quindi, fin dal secolo scorso si sono immaginate macchine autopoietiche dotate di pannelli solari e accumulatori; la tecnologia necessaria è già pronta, ed è in continuo miglioramento quanto ad efficienza e portabilità.

 

Le macchine, dal punto di vista energetico, possono già oggi essere autotrofe. Se non è un problema accedere direttamente ad una fonte di energia ampiamente disponibile, molto più impervia è la via verso macchine capaci di identificare ed estrarre i materiali grezzi da lavorare per costruire copie di sé stesse – i materiali cioè equivalenti a quel che gli esseri viventi metabolizzano per costruire le proprie parti e quelle delle copie che generano. Eppure, anche per quel che riguarda questo problema alcune strade appaiono praticabili ed altre sono già state imboccate e hanno raggiunto traguardi importanti. Fra le istituzioni più interessate alla costruzione di macchine autoreplicanti ed autonome, vi è la NASA. Almeno dagli anni ’80, si accarezza l’idea di sonde autoreplicanti da inviare nello spazio, fabbriche autonome su altri corpi celesti, come la Luna, in grado di autoreplicarsi e preparare per noi altri mondi, anche in vista del successivo stabilirsi di essere umani, oppure semplicemente come stabilimento produttivo per produrre risorse utili da rispedire indietro verso la Terra.

 

Solo molto recentemente si è passato dalle generalizzazioni teoriche ai primi tentativi di disegnare sistemi di approvvigionamento effettivi delle materie prime necessarie alle fabbriche autoreplicanti sul suolo lunare. Uno di quelli più interessanti è stato presentato nel 2021 da Alex Ellery, un professore della Carleton University di Ottawa. Nella sua presentazione, il professore ha illustrato come sia possibile produrre in situ sulla luna materiali ceramici, plastiche siliconiche, ferro, acciaio e vari tipi di leghe metalliche oltre ad un ampio insieme di altri materiali, utilizzando tecnologie già disponibili e implementabili anche sulla superficie del nostro satellite. I progetti come quello del prof. Ellery mostrano come anche in ambienti molto remoti e molto diversi dal nostro pianeta dovrebbe essere possibile, almeno in linea di principio, reperire le risorse che sono necessarie per un robot autoreplicante – o per meglio dire un ecosistema autoreplicante di diversi robot, che collaborino in una fabbrica autonoma.

In realtà, tuttavia, le cose potrebbero essere ancora più semplici sul nostro pianeta. Consideriamo, per esempio, il sistema RepRap che abbiamo citato in precedenza, che illustra come sia possibile realizzare una macchina capace di produrre le sue stesse parti. Già nel 2018, è stato presentato un accessorio per RepRap davvero interessante: si tratta di RepRapable Recyclebot, ovvero un estrusore open source per riciclare la plastica in filamenti di stampa 3D – la materia prima necessaria a RepRap. Manco a dirlo, anche questo accessorio è stampabile in 3D, e può quindi andare ad estendere le funzionalità di un futuro robot che, inglobando sistemi come RepRap, possa produrre i suoi componenti e assemblarli, consumando la plastica usata dispersa nell’ambiente terrestre e ormai fin troppo abbondante. Del resto, il riciclo di plastica per produrre la materia prima utile alle stampanti 3D si sta trasformando in un mercato interessante di per sé, al di là delle applicazioni di cui qui si discute; le prime aziende sono già arrivate a presentare le proprie tecnologie ed i propri prodotti, e la tecnologia avanza sempre più.

Ovviamente, mentre come abbiamo già discusso è già possibile ottenere componenti in plastica per costruire qualsiasi tipo di macchina a partire da queste fonti abbondantemente disponibili, e anche ammettendo che, come si vuol fare sulla luna, le macchine possano estrarre, purificare e processare altri materiali come metalli, ceramiche e silicati (vetri), abbiamo già visto che assemblare questi ultimi a formare chip, processori e altra componentistica elettronica, è oggi molto più complicato. Si può migliorare? Per aumentare la risoluzione di stampa, si tratterà di ideare un processo di stampa completamente nuovo. Attualmente, la stampa 3D a getto d'inchiostro fornisce la risoluzione più elevata, ma resta da vedere se questo processo può essere migliorato per fornire una risoluzione inferiore a 1 micron. In futuro, probabilmente si adatterà un processo di fotolitografia o un processo di autoassemblaggio da componenti molecolari per produrre circuiti integrati con la risoluzione necessaria. In ogni caso, già nel 2018 alcuni ricercatori hanno stampato in 3D sistemi su circuiti integrati (SoC) dotati di microcontrollori usando polimeri su un substrato di silicio flessibile. Queste microcontrollori dispongono di una memoria 7000 volte maggiore rispetto ad altri circuiti integrati flessibili prodotti sino adesso.

Inoltre, transistor su film sottile (TFT), diodi e LED possono essere stampati in 3D da polimeri organici con sistemi disponibili in commercio o sperimentali. I TFT stampati in 3D possono avere varie configurazioni, e i polimeri utilizzati per la loro manifattura possono essere facilmente drogati e funzionalizzati, consentendo di regolare le loro proprietà elettroniche e ottiche per soddisfare le esigenze di diversi dispositivi. Non ci siamo ancora; tuttavia, da queste brevi notizie e da quelle fornite nell’articolo precedente a questo, dovrebbe essere chiaro come in linea di principio è possibile immaginare che un sistema di robot diversi, costruiti da una fabbrica replicativa centrale, possa includere macchine che servono a procacciare le materie prime e i sistemi di alimentazione energetica ed altre che generano i componenti necessari e li assemblano completando il ciclo autopoietico o sostituendo e riparando quelli danneggiati. Un tale ecosistema meccanico, capace di sfruttare le risorse ambientali per dirigere la propria replicazione, potrebbe poi adattarsi a variazioni ambientali importanti e limitative, per esempio in caso di esaurimento di qualche risorsa o per ampliare le sue possibilità di approvvigionamento? Potrebbe, cioè, essere capace di evoluzione adattativa?

Domani, proveremo insieme ad affrontare questo argomento.

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