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Lo studio

Come nasce una bufala. Un'indagine tra chimica e antropologia

Enrico Bucci

Sono parte naturale e inestirpabile dell’ambiente cognitivo in cui viviamo. Più grande è una società e maggiormente è sviluppata la comunicazione al suo interno, maggiore spazio e persistenza avranno le credenze infondate. Possiamo però difenderci

Quando gli esploratori-naturalisti dei secoli passati incontravano un animale sconosciuto, preparavano degli accurati resoconti scientifici, che includevano di solito una sua descrizione più precisa possibile, qualche dato circa la sua possibile storia evolutiva e altre informazioni di tipo naturalistico, quali l’ambiente preferito e le sue abitudini. L’animale che intendo stanare per il lettore è una bestia fantastica, ma non per questo meno affascinante, che si muove negli spazi della nostra cognizione, procurando effetti e danni altrettanto reali di quelli che potrebbe procurare se avesse un corpo fisico; per cui intendo procedere alla maniera di quegli antichi naturalisti, provvisti di un buono spirito di osservazione e una solida base di darwinismo, cui però aggiungeremo l’armamentario delle moderne scienze cognitive, visto l’ambiente in cui dovremo muoverci.

 

Intendiamoci dunque innanzitutto bene sul tipo di animale che vogliamo studiare, differenziandolo dalla bestia con esso frequentemente confusa, la bugia (e la sua variante criminale, la frode). Secondo l’Accademia della Crusca, il termine “bufala”, introdotto quasi sicuramente a Roma all’inizio degli anni 50 del secolo scorso, deriverebbe dal concetto di "menare per il naso come una bufala", facendo girare a vuoto un interlocutore come se avesse un anello attaccato al naso (al modo dei bufali e dei buoi) dietro a storie fantastiche, molto distanti dalla realtà fattuale.

Le bufale sono quindi racconti che hanno la caratteristica di essere disancorati dal reale, complessi a sufficienza da far compiere diversi “giri a vuoto” cognitivi a chi le segue. Rispetto alle “normali” bugie – invenzioni estemporanee volte di solito a raggiungere un vantaggio individuale immediato – le bufale hanno minore verosimiglianza ma, soprattutto, una caratteristica importante: sono propagate e diffuse fra più persone, la maggioranza delle quali non beneficerà affatto in maniera materiale e diretta da esse.

Sebbene bufale e bugie abbiano quindi entrambe per effetto l’inganno, l’obiettivo primario delle prime non è quello di screditare un competitore, di realizzare un guadagno finanziario, di ottenere una promozione al lavoro o di trovare una scusa per evitare di comportarsi in un certo modo; molto spesso, anzi, le bufale costringono chi vi crede a comportamenti elaborati e antieconomici, complicandone la vita in una maniera che dall’esterno può apparire buffa e priva di senso. Al contrario, le bugie, essendo un mezzo per perpetrare una frode, sono un consapevole nascondimento della realtà, sostituita con una finzione adatta a raggiungere i propri scopi. Potremmo anzi dire che mentre chi propaganda una bufala lo fa nella convinzione di aprire gli occhi di altri alla verità, chi racconta una bugia ha per scopo proprio di celare la verità, fatto di cui è ben consapevole. Naturalmente, questo non esclude che soggetti terzi possano trarre vantaggi – di solito economici – dalla propagazione di determinate bufale: al contrario, questo regolarmente avviene ogni qualvolta sia possibile. Si possono cioè benissimo sfruttare le bufale per realizzare delle frodi; ma, come si è detto, le bufale in prima battuta non nascono e non frequentano le nostre praterie cognitive perché qualcuno ha intenzione di danneggiare terzi a proprio vantaggio.

Ricapitolando: la bufala è complessa, convoluta e ben distante dalla realtà, ma è propagandata in buona fede come verità; la bugia è spesso verosimile e si mimetizza quanto più possibile con la realtà, ma chi la propaga la distingue benissimo dalla verità; la bufala ha per obiettivo e ambiente le masse ed è un fenomeno sempre sociale, la bugia può anche rivolgersi a singoli individui che si intende manipolare; la bufala, contrariamente alla bugia, non nasce con interesse fraudolento, cioè con l’intenzione di acquisire un vantaggio in danno di altri.

Vista la sommaria descrizione delle principali caratteristiche delle bufale testé esaminata, è immediato chiedersi il perché esse esistano e siano ben presenti nella nostra società, dato che non hanno una apparente finalità fraudolenta, e possono invece arrecare seri danni a chi ne è portatore. Tutto sommato, abbiamo definito le bufale come delle falsità che non arrecano vantaggio tangibile immediato agli individui; eppure, esse non sono scomparse dalla nostra cultura, né danno segno di risentire particolarmente del grado di sviluppo tecnologico delle nostre società, ma anzi sembrano godere di ottima salute, perdurando per secoli – il che fa pensare che ci debba essere qualche fattore che le “mantiene in vita”.

Molto si è discusso di ciò che ci porta a ricercare e ad accettare le bufale più disparate, vittime, come vedremo, di diversi tipi di bias cognitivi: ma perché, in prima battuta, alcuni individui inventano le bufale e poi eventualmente propagano le loro invenzioni? Perché raccontiamo storie fantastiche, completamente disancorate dalla realtà, cercando di convincere altri e credendo sinceramente noi stessi che esse siano vere? Dopo tutto, se non nascessero nella mente di singoli ben determinati esseri umani, le bufale non esisterebbero; prima quindi di esaminare le ragioni per cui crediamo nelle bufale raccontate da altri, dobbiamo porci la domanda del perché inventiamo bufale, e, vista l’ubiquità culturale, storica e geografica di questo comportamento, quale sia il significato adattativo che ne ha favorito la sopravvivenza.

Per capirlo, possiamo considerare l’origine e l’importanza per la nostra specie dell’attività del raccontare in sé per sé – attività che in inglese è ben riassunta nel termine storytelling. Gli studi in materia indicano abbastanza chiaramente quale potrebbe essere stata la sua origine: i racconti dei primi cacciatori-raccoglitori preumani, cioè di ominini appartenuti a specie antecedenti la nostra. Le abilità necessarie al racconto sono infatti antichissime: già nel secolo scorso, l’etologo e psicologo evolutivo Glen McBride ipotizzò uno scenario in cui il racconto avrebbe potuto evolvere addirittura in assenza di linguaggio verbale, utilizzando il mimo ritualizzato per descrivere per esempio lo svolgimento di una caccia di successo e così formare le nuove generazioni senza che esse dovessero necessariamente sperimentare attività pericolose

 

Il racconto, nella visione di McBride, sostituisce l’esperienza diretta nella formazione delle nuove generazioni, così potenziando l’apprendimento (perché i racconti possono essere molti di più delle esperienze praticabili) e diminuendo al contempo i rischi che l’essere spettatori di cacce reali o altri comportamenti pericolosi non innati comporta per i cuccioli delle specie non umane. Il racconto è dunque né più né meno che la rivoluzione che marca il passaggio dall’apprendimento per imitazione diretta – il più diffuso mezzo di trasmissione culturale in natura – all’apprendimento per trasmissione di esperienza codificata e intangibile, e quindi alla nascita di “culture di gruppo” di estensione e flessibilità molto maggiore che in qualunque specie non umana; e forse l’attività del raccontare è quella che più di ogni altra ha permesso agli ominini di adattarsi con successo fino ad oggi.

 

Per quanto queste ricostruzioni siano convincenti, mancano di un elemento fondamentale: la prova che, effettivamente, l’attività del raccontare conferisca un vantaggio evidente ai gruppi e agli individui coinvolti. Alcuni indizi del ruolo che lo storytelling abbia conferito un vantaggio evolutivo ai nostri antenati possono essere tuttavia trovati tra i loro equivalenti culturali moderni. Per esempio, nelle tribù dei cacciatori-raccoglitori delle Filippine, un modello sociale molto studiato perché richiama le caratteristiche attribuite alle bande di Homo sapiens del paleolitico, la presenza di individui bravi a raccontare storie (non importa quanto ancorate alla realtà) è risultata positivamente correlata alla cooperazione fra gli altri individui del gruppo; inoltre, e questo è il punto cruciale, gli individui più bravi nel racconto sono risultati quelli mediamente a maggior successo riproduttivo, perché la loro accresciuta popolarità aumentava le chance di incontrare un numero maggiore di potenziali partner.

Nel complesso, dunque, ancora oggi i gruppi di cacciatori-raccoglitori con i migliori raccontatori sono quelli che sperimentano i vantaggi di una maggiore cooperazione, accrescendo la probabilità di tramandare i propri geni alla generazione successiva (concetto definito come “fitness di gruppo”); contemporaneamente i migliori raccontatori, grazie alla loro popolarità, raggiungono un miglior successo riproduttivo all’interno dei gruppi cui appartenevano, accrescendo la loro fitness individuale (cioè la probabilità di trasmettere i propri geni a un gruppo elevato di discendenti). Ma se lo storytelling, per le ragioni che abbiamo dimostrato, porta a una maggiore fitness individuale e di gruppo, quali sono i tratti fisici sui quali la selezione naturale ha potuto operare, per fissare questa abilità all’interno del bagaglio comportamentale che definisce la nostra specie?

Per capire come mai il raccontare storie sia una abilità così diffusa e pronunciata tra gli esseri umani, non è infatti sufficiente individuare i vantaggi che esso conferisce, come finora abbiamo fatto: è necessario pure avere un’evidenza del meccanismo attraverso cui questa abilità è trasmissibile da una generazione all’altra, e può essere eventualmente incrementata. Senza la possibilità di poter fissare una data caratteristica nel Dna degli individui (cioè nel loro corredo genetico) – per quanto si tratti di una caratteristica complessa come l’attitudine allo storytelling – la selezione naturale non porterebbe a nessun arricchimento della sua frequenza nelle generazioni successive, ma ricomincerebbe daccapo ad ogni generazione, favorendo quegli individui meglio capaci di raccontare storie, ma senza nessuna possibilità di fare in modo che i loro figli ereditino questa caratteristica (e quindi che essa aumenti nella generazione successiva perché i migliori raccontatori di storie hanno più figli degli altri).

Come ha potuto dunque la selezione naturale, generazione dopo generazione, aumentare la frequenza di umani capaci di raccontare sempre meglio storie sempre più complesse? Le vie di Darwin, come quelle del Signore, sono infinite. In questo caso, sembra proprio che la selezione abbia agito sulla neurochimica cerebrale, a partire da individui che, nel raccontare, provano particolare piacere – cioè da individui il cui cervello, quando raccontano storie a un pubblico, secerne fattori in grado di farli sentire meglio e di rinforzare la volontà di narrazione in connessione con la popolarità guadagnata dal raccontare storie particolarmente belle.

Il desiderio di popolarità, di per sé, è un carattere particolarmente interessante, visto che è una delle molle fondamentali che ci spingono a moltiplicare gli sforzi per raggiungere i nostri simili, e dunque a uscire dall’isolamento individuale. In questo senso, ha una valenza adattativa, perché rafforza la tendenza della nostra specie a formare gruppi, non fosse altro che per la necessità di vedere sé stessi riconosciuti dal maggior numero possibile di altri individui. La pulsione che ci spinge a cercare la visibilità presso gli altri è profondamente radicata nel nostro genoma: difatti i ricercatori hanno dimostrato l’esistenza di un complesso circuito di ricompensa cerebrale legato al riconoscimento che riceviamo dagli altri e alle connesse interazioni sociali, coinvolgente la dopamina (e di conseguenza i neuroni dello striato), ma anche la modulazione di una serie di altri neurotrasmettitori, come per esempio l’ossitocina. Grazie alla chimica radicata nei nostri stessi cervelli, non solo stiamo meglio se abbiamo una buona visibilità sociale, ma, a causa del coinvolgimento della dopamina, se intravediamo la possibilità di tale visibilità, mettiamo compulsivamente in atto una serie di comportamenti allo scopo di soddisfare la nostra sete di popolarità (non diversamente da quello che fa, sempre a causa della dopamina, chi cade vittima della passione del gioco e attua una serie ripetitiva di comportamenti nell’illusione di raggiungere un premio, senza potersi facilmente fermare). Ma, come abbiamo visto per le tribù di cacciatori/raccoglitori delle Filippine, tra i comportamenti che aumentano la popolarità di un individuo vi è certamente il raccontare storie; dunque la selezione naturale per individui in cerca di gruppi cui raccontare storie può ridursi alla selezione di quegli individui che hanno stampato nel proprio genoma la neurochimica necessaria a provar piacere in questa attività, in connessione alla popolarità che ne guadagnano, perché essi, come abbiamo visto sempre nelle tribù delle Filippine, in ragione di questa popolarità hanno maggior probabilità di riprodursi e perché i gruppi all’interno di cui essi sono inseriti hanno un vantaggio cooperativo rispetto agli altri.

Questa è solo la prima metà della storia: difatti, la selezione naturale ha anche fatto in modo che, per coloro che sono bravi a raccontare e per i bei racconti, l’attenzione e l’empatia del pubblico sia una ricompensa decisamente a portata di mano. Il neuroscienziato Paul Zak, che si occupa principalmente di come il nostro cervello influenza le nostre decisioni e il nostro comportamento economico, ha dedicato buona parte della sua vita professionale allo studio dell’ossitocina, una piccola molecola prodotta dal nostro cervello che è particolarmente implicata nel controllo dell’empatia e delle nostre interazioni sociali. Fra le altre cose, il suo gruppo di ricerca ha scoperto che quei racconti che noi giudichiamo particolarmente “coinvolgenti”, e sono quindi capaci di catturare al massimo la nostra attenzione, di farci immedesimare e di provare maggior empatia nei confronti di chi racconta, agiscono aumentando la produzione di ossitocina nel nostro cervello così facendo, essi ci fanno commuovere, cioè letteralmente “muovere con” lo spirito di chi racconta e dei protagonisti del racconto, ma soprattutto ci predispongono alle interazioni sociali. Ricordate l’effetto dello storytelling sulla cooperazione dei gruppi di cacciatori/raccoglitori delle Filippine? Ecco un esempio dei meccanismi che potrebbero essere implicati, ed ecco perché un buon film, una buona storia o una bella rappresentazione teatrale difficilmente andranno deserti.

Il quadro è quindi ora più chiaro: da una parte, la selezione ha potuto agire per esempio sulla risposta neurochimica alla popolarità e sul conseguente maggior successo riproduttivo di chi racconta, implicando un meccanismo basato sulla dopamina (che scatena la ricerca anche compulsiva di gratificazione); dall’altra parte, ha selezionato in ognuno di noi un tratto che ci fa godere delle belle storie, basato sulla produzione di ossitocina, la quale rafforza anche le interazioni sociali (un tratto evolutivamente vantaggioso). Grazie a una combinazione come questa, senza dubbio complicata da ulteriori tratti genetici di rinforzo, le specie umane più avanzate hanno potuto evolvere e migliorare ad ogni generazione la capacità di raccontare.

A questo punto, possiamo fare una considerazione cruciale: l’evoluzione di quello che potremmo chiamare “il tratto del raccontatore” nella nostra specie, favorito selettivamente dalla possibilità di creare attraverso il racconto un bagaglio culturale tramandabile a un intero gruppo, è dipesa dalla selezione di un meccanismo neurochimico che non pesa affatto il contenuto di verità di ciò che si racconta, e che in linea di principio ci predispone a raccontare qualunque cosa, pur di ricevere la gratificazione derivante dall’attenzione del nostro pubblico. Allo stesso tempo, il semplice fatto di avere qualcuno che racconti attingendo a un bagaglio tradizionale o inventando di sana pianta, scatena un meccanismo identitario di “riconoscimento culturale” e di empatia nel pubblico che rinforza la cooperazione (ed in quanto tale è evolutivamente vantaggioso), che è pur esso indipendente dal contenuto di verità del racconto.

Si può anzi tranquillamente dire che racconti palesemente falsi possono comunque avere un significato positivo sia per chi racconta (in termini di popolarità) che per il gruppo a cui sono raccontati (in termini di rinforzo della cooperazione). I problemi nascono quando racconti falsi sono inerenti al mondo che ci circonda, e non sono palesemente etichettati come fantastici: raccontare come fatto vero in una tribù del paleolitico che le tigri possano essere placate dalle carezze date di nascosto in un certo punto della coda avrebbe probabilmente portato ad estinguersi la tribù che fosse andata dietro a questa bufala. Seguendo questo ragionamento, ci potremmo aspettare che il meccanismo illustrato non possa portare alla sopravvivenza delle bufale – almeno non di quelle più pericolose – per estinzione degli eventuali creduloni. Tuttavia, provate a raggiungere un certo punto della coda di una tigre selvatica per poterlo carezzare: molto prima che possiate arrivarci, sarete diventati cibo per tigri paleolitiche. Di conseguenza, una tribù cui fosse raccontata questa bufala non sarebbe mai nelle condizioni di poterne verificare il contenuto di verità: potrebbe continuare a crederci, pur non azzardandosi mai a tentare l’esperimento per manifesta impossibilità. La tribù credulona (ma non stupida) potrebbe continuare a beneficiare dei vantaggi sociali del racconto (pur falso e almeno potenzialmente pericoloso), senza sperimentare le conseguenze negative del proprio erroneo convincimento.

Inoltre, molte bufale sono per così dire “naturali” e per niente pericolose (a prima vista). Pensiamo per esempio alla convinzione che la Terra sia piatta. In realtà, si tratta di un convincimento istintivo cablato nei nostri cervelli.

Quando ci spostiamo a piedi, come facevano i nostri antenati, il nostro “sistema di navigazione interno” interpreta la superficie sulla quale ci spostiamo come priva di curvatura, perché gli effetti di questa non sono apprezzabili su distanze di poche decine di chilometri (quelle che siamo in grado di coprire prima di fermarci), ad altezze limitate e con un orizzonte in genere mascherato da vegetazione, montagne e altre irregolarità (peraltro non ci siamo evoluti sul mare, dove l’orizzonte libero avrebbe potuto far nascere qualche strana idea, come accadde a certi strani individui sulle sponde del mar Egeo molto tempo dopo). Lo stesso sistema interno che ci guida lungo la superficie su cui camminiamo traduce anche la sensazione dovuta all’azione della forza di gravità su certi ossicini del nostro orecchio interno in quello che noi chiamiamo “sopra” e “sotto”, oppure “alto” o “basso” rispetto al suolo; e questo sistema funziona benissimo da ben prima che fossimo umani, perché ci permette di evitare istintivamente i rischi delle cadute, di valutare la distanza da percorrere per raggiungere un oggetto lontano camminando in linea retta, eccetera. Di converso, se un nostro antenato avesse versato distrattamente dell’acqua su una superficie curva, la avrebbe vista scorrere seguendo la pendenza; mentre i laghi e gli stagni sono ben fermi al loro posto, e non scorrono certo via – che pazzia sarebbe quindi alla luce di questi o tantissimi altri dati di fatto quella di immaginarsi una superficie terrestre curva? Peraltro, calcolare la distanza esatta per raggiungere un certo luogo, poniamo un albero carico di frutti in un raggio approssimativo di 10 km, è procedura complessa e inutile, perché il valore esatto della distanza ottenuto tenendo conto della curvatura terrestre è pochissimo diverso da quello ottenuto assumendo che la terra sia piana; per cui la bufala riferibile a questa credenza, che fa risparmiare tempo e fatica di calcolo, è più utile per arrivare prima degli altri, di quanto non sia la ricerca puntigliosa della verità.

Bufale pericolose solo se sottoposte a verifica, altre bufale “naturali” che non comportano rischi immediati: tutte sono ovviamente per definizione false, credute per vere e, lungi dal procurare svantaggi (eccetto che in condizioni particolari), possono essere vantaggiose perché fanno risparmiare tediosi percorsi cognitivi per raggiungere un’inutile verità (è il caso della Terra piatta nell’esempio appena fatto) e comunque possono essere utilizzate come base per quell’attività del raccontare così indispensabile alla nostra specie, che la selezione naturale ci ha reso chimicamente “dipendenti” da essa. A quanto pare, noi, specie di raccontatori, dobbiamo accettare l’idea che le bufale siano continuamente concepite e, se hanno successo presso il pubblico o forniscano approssimazioni utili al nostro vivere quotidiano, siano facilmente selezionate; ma perché dovremo quindi preoccuparci delle bufale, posto che almeno in linea di principio quelle fra esse che arrecavano danno diretto alle tribù dei nostri antenati dovrebbero aver avuto vita breve?

Innanzitutto, a causa di meccanismi simili a quelli che ci portano istintivamente a credere che la Terra sia piatta, noi crediamo alle bufale e ce ne autoconvinciamo perché siamo “nati per credere” a certi tipi di racconto. Dirò di più: allo stesso modo in cui credere alla Terra piatta deriva naturalmente dalla nostra fisiologia percettiva, così esiste nei nostri cervelli una serie di “circuiterie cognitive” che, per varie ragioni, nonostante ci abbiano portato e, in taluni contesti, ci portano indubbi vantaggi, ci rendono però ciechi di fronte alle conseguenze che molti tipi di bufale dannose possono avere, oltre che incapaci di accorgerci che si tratta di bufale. Non solo noi siamo predisposti a “contar storie”, ma abbiamo anche delle caratteristiche che ci rendono un pubblico mansueto e interessato, incapace spesso di distinguere il vero dal falso per delle ottime ragioni evolutive. Non siamo quindi difesi “in automatico” dalla diffusione di false credenze, ed anche quelle pericolose possono sopravvivere.

Il motivo è facilmente intuibile, e risiede in una delle caratteristiche che hanno costruito il nostro maggior successo come specie: la capacità di trasmettere non solo geni, ma anche conoscenze verticalmente da una generazione all’altra e, orizzontalmente, all’interno di una popolazione. La fiducia nel racconto di un interlocutore è indispensabile perché oltre all’informazione genetica nella nostra specie si possa trasmettere il tratto principale che forma il nostro fenotipo esteso, un tratto adattativo cruciale, che troviamo realizzato nelle nostre tradizioni culturali. Per evitare di credere a qualunque racconto, noi abbiamo un’innata tendenza a utilizzare alcune euristiche che “pesano” in automatico l’affidabilità di chi ci sta raccontando qualcosa: innanzitutto, consideriamo degno di fede chi non sbaglia troppo frequentemente in ciò che ci racconta, ma, soprattutto, abbiamo una serie di indicatori sociali che utilizziamo per stabilire di chi fidarci di più. Il primo indicatore è quello della parentela e della prossimità genetica, perché, come è ovvio, chi ha i nostri geni e fa parte della nostra famiglia ha ovvio interesse a concorrere alla nostra sopravvivenza e alla trasmissione dei nostri geni, i quali sono in buona parte condivisi. Per questo, ci fidiamo di genitori, fratelli, parenti stretti, fino ovviamente a prova contraria. In secondo luogo, tendiamo a credere a chi è avanti negli anni, per la buonissima ragione che si ritiene abbia maggiore esperienza. Infine, abbiamo inventato molti tipi di indicatori surrogati di misure dirette di affidabilità, consistenti soprattutto nel riconoscimento di un ruolo in base a un patto sociale prestabilito e a una verifica demandata a procedure comunitarie di vario tipo: si crede, in sostanza, all’autorità perché questa, soprattutto nei piccoli gruppi in cui ci siamo evoluti, è di solito indice di successo nelle proprie capacità cognitive, sociali e organizzative, e solo secondariamente delle proprie caratteristiche fisiche; e fidarsi di qualcuno che ha mostrato di essere capace, e ha per questo un ruolo socialmente riconosciuto, è più conveniente di fidarsi di qualcuno delle cui capacità non abbiamo nessuna evidenza, neppure socialmente surrogata dal ruolo che ricopre. Questo tratto può svilupparsi fino al punto in cui è proprio la credenza in idee infondate dal punto di vista scientifico, come le religioni o le pseudoscienze, espresse da chi abbia una certa autorità socialmente certificata, può divenire un carattere identitario che rafforza l’appartenenza al proprio gruppo, e favorisce quindi riproduttivamente in quel gruppo i credenti, escludendo socialmente i non credenti.

Per i motivi anzidetti, e probabilmente per molti altri, come individui tutti, più o meno, tendiamo ad affidarci e a credere in misura variabile ai racconti degli altri, e a questo siamo stati predisposti dalla selezione naturale come specie sociale.

Esaurito questo primo argomento, in secondo luogo va considerato che il pericolo di credere a certe bufale e il danno che queste possono eventualmente arrecare variano a seconda del contesto. Chi vive in montagna e da lì non si muove, può tranquillamente immaginare che sia possibile dissetarsi in mare aperto semplicemente immergendo il bicchiere fra le onde; ma questa è una credenza che ucciderebbe rapidamente tutti i marinai, se essi non sapessero riconoscerla per quello che è. A un livello più generale, siamo tutti montanari in mare aperto, perché ci siamo evoluti in piccole tribù di cacciatori-raccoglitori in un ambiente totalmente diverso da quello in cui siamo oggi; il mondo in cui ci siamo forgiati evolutivamente è scomparso, e viviamo in un mondo estremamente complesso, veloce, intricato ed enormemente più ampio. Questo significa che un gran numero di credenze false, spesso connesse alla nostra stessa fisiologia, che magari erano innocue o addirittura funzionavano bene per la maggior parte della nostra storia evolutiva, oggi possono essere molto dannose. Per esempio, se oggi il comandante di una nave transatlantica o il pilota di un aeroplano non tenessero conto della curvatura terrestre nel calcolare le loro rotte, i danni che potrebbero fare sarebbero ingenti, per cui la credenza che la Terra sia piatta, radicata nel nostro sistema percettivo, non è più un’innocua e utile approssimazione. In terzo luogo, le tecnologie che abbiamo sviluppato – ben prima di Internet, a partire almeno dalla scrittura – consentono una permanenza maggiore e una propagazione delle bufale molto più efficiente di quanto la nostra evoluzione abbia potuto sperimentare durante l’origine della nostra specie, quando esse viaggiavano per trasmissione orale e avevano come unico supporto la labile memoria delle persone: anche questo apre scenari pericolosi, perché da un punto di vista biologico non siamo preparati alla scala e alla velocità con cui le bufale si diffondono né alla loro permanenza durante i secoli, anche quando siano state rivelate come false.

 

Le bufale, dunque, sono parte naturale e inestirpabile dell’ambiente cognitivo in cui viviamo, e più grande è una società e maggiormente è sviluppata la comunicazione al suo interno, maggiore spazio e maggiore persistenza si registreranno per credenze infondate di ogni sorta. Siamo quindi destinati a soccombere alle bufale, animali fantastici creati da quegli stessi meccanismi che hanno consentito il successo della specie? In realtà, proprio la conoscenza di quelli che chiamiamo “limiti cognitivi”, implicando con questa definizione una connotazione negativa forse eccessiva dato il vantaggio evolutivo che certi meccanismi mentali ci hanno conferito, e l’adozione di un metodo di pensiero forse poco naturale ma di certo molto utile sono dei rimedi potenti.

Che sia così, è del resto necessario: se, infatti, troppa diffusione avessero le credenze irrazionali e troppa presa nel determinare il nostro comportamento, finiremmo per estinguerci. Viviamo quindi in equilibrio fra bufala e conoscenza fondata, e il modo più raffinato di spostare l’equilibrio a favore di quest’ultima consiste nell’apprendimento del procedimento razionale di indagine della verità, perfezionatosi poi nel metodo scientifico sperimentale.

Non sono né la scienza né il discorso razionale che possono contrastare la diffusione sociale di false credenze, per gli scopi più vari – manipolatori o meno, qui non importa; ma questi mezzi sono utili all’individuo quando voglia evitare di caderne vittima, restringendo il loro ambito a credenze tutto sommato innocue, perché non legate a scelte circa il comportamento da adottare in situazioni importanti. Siccome poi, in particolare in società globali e iperconnesse come quelle in cui oggi viviamo, le bufale sono più pericolose perché possono danneggiare, invece che una singola popolazione umana, l’intera specie, abbiamo un altro esempio di come una caratteristica inizialmente favorevole allo sviluppo della nostra specie, perché per vari motivi potenzialmente utile ai piccoli gruppi di cui questa era composta e il cui eventuale danno era limitato a gruppi delimitati, senza comportare diffusione nell’intera popolazione umana, sia diventata antiadattativa nelle condizioni di vita moderne. Le bufale antivacciniste, per esempio, avrebbero potuto estinguere una o due tribù, se fra i nostri antenati fossero stati diffusi i vaccini; ma, come tutte le bufale più pericolose, si sarebbero estinte con i loro portatori prima di potersi propagare nel modo in cui oggi, attraverso mezzi come Internet, istantaneamente fanno.

 

Il nostro mondo, oggi, è profondamente diverso da quello che ci ha forgiato come specie; per fortuna, non dobbiamo aspettare l’effetto della selezione naturale sui nostri geni, ma possiamo reagire modificando volontariamente il nostro fenotipo esteso, e imparare a verificare le fonti, a diffidare di qualunque sia particolarmente consonante o dissonante con le nostre convinzioni per condurre verifiche accurate e “perder tempo” nella riflessione, a riconoscere le fallacie logiche più diffuse nelle argomentazioni nostre e altrui, ad assumere un atteggiamento più riflessivo, quanto più ciò che ci viene proposto implica un agire immediato. E – finalmente – possiamo poi chiedere che nelle scuole, di ogni ordine e grado, e in ogni occasione in cui sia possibile farlo, si aumenti di molto il peso dell’insegnamento dei rudimenti di analisi razionale e scientifica, in maniera continua e senza mai dimenticare di far vedere la loro indispensabilità per muoversi nel complessissimo mare di informazione e cognizione in cui per la prima volta la specie umana si trova a navigare.

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