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Cattivi scienziati

L'importanza di proteggere la biodiversità

Enrico Bucci

La valorizzazione degli ecosistemi in opposizione al loro degrado antropico ha un valore estetico meritevole di tutela non meno di quanto vale per le opere d’arte. Lo studio

Molto spesso, per sottolineare l’importanza della salvaguardia del nostro ambiente e in definitiva dell’intera biosfera, si ricorre alla dimostrazione di determinati benefici che un ambiente meno sfruttato e modificato dall’azione dell’uomo apporta. Argomenti inoppugnabili sono via via esposti per illustrare gli effetti del degrado degli ecosistemi sulla nostra salute, dell’alterazione climatica sulle nostre società e sulla nostra sicurezza, della diminuita biodiversità sulle capacità tamponanti e di riciclo dell’ambiente e via continuando fino agli argomenti di tipo finanziario, ove la produttività economica di ambienti ad altro impatto antropico è paragonata a quella di altri meno soggetti all’azione dell’uomo. Ognuno di questi argomenti abbia i suoi meriti, nonostante la complessità e qualche volta la fragilità delle corrispondenti analisi in dipendenza del valore dei parametri e dei modelli utilizzati; tuttavia, io credo che forse bisognerebbe prestare maggiore attenzione a un punto di comprensione immediata e di facile comunicazione, che riposa su un valore di solito non preso a sufficienza sul serio quando si parla di preservazione ambientale.

Per introdurre questo particolare tipo di valore connesso alla preservazione della biodiversità e dell’integrità ambientale, conviene partire dall’esperienza che ciascuno di noi può fare, nell’osservare ciò che comunemente definiamo la natura e il paesaggio che ci circonda. In generale, tendiamo ad apprezzare ecosistemi ricchi di specie diverse e variegati in quanto alla morfologia, come il paesaggio di un lago alpino incastonato in una foresta boreale, mentre al contrario rifuggiamo da habitat monotoni e privi di vita, come una distesa di asfalto in un parcheggio. Abbiamo cioè un’innata preferenza, che tendiamo a considerare di tipo estetico, proprio per quegli ambienti che, a ragione o a torto, ci appaiono contenere un elevato numero di specie e quello che definirei un movimento paesaggistico armonico e vario. Anzi, proprio quando ci riferiamo all’ingenua concezione di “naturale” in senso positivo, tendiamo a riferirci istintivamente proprio a questo tipo di ecosistemi che preferiamo agli altri, indipendentemente dal fatto che la nostra vita in essi potrebbe essere molto più difficile della routine in una noiosa e omogenea distesa di villette a schiera tutte identiche o di appartamenti in stile comunismo reale cinese. Sebbene molti pensino che questa preferenza costituisca una forma di bias culturale, magari sorto in età romantica con il mito del buon selvaggio e della natura incontaminata, la realtà è diversa: un recente articolo pubblicato su Science, per esempio, valutando in modo quantitativo l’omogeneità degli ambienti frequentati da sei diverse specie di Homo, ha concluso che le più avanzate e giovani, inclusa la nostra, mostrano una tendenza a preferire habitat variegati e spazialmente diversi per la propria esistenza, ovvero, in termini usuali, a preferire paesaggi vari rispetto ad altri più monotoni.

Questa tendenza, unita alle innate propensioni esploratorie, costituisce uno dei tratti che gli scienziati ritengono siano alla base della propensione dei nostri antenati a invadere e colonizzare ogni angolo del globo, abbandonando l’Africa: le potenzialità connesse alla diversità ambientale sono state un propellente che ha favorito le migrazioni, l’adattamento e la differenziazione delle prime culture. Questo recente lavoro è in buon accordo con gli studi di una disciplina chiamata “estetica evoluzionistica”, i quali cercano di rintracciare le basi innate delle nostre preferenze estetiche e di legarle a tratti rivelatisi adattativi per l’evoluzione della nostra specie. In un famoso esperimento di una ventina di anni fa, a bambini di diverse nazioni fu chiesto di selezionare il paesaggio preferito a partire da una serie di foto standardizzate. Sono risultati preferiti i paesaggi di savana interrotti da alberi, con l'acqua, con aree sia aperte che boschive, con alberi con rami a un'altezza adatta per arrampicarsi e prendere cibo, con caratteristiche che incoraggiano l'esplorazione come un sentiero o un fiume che curva fuori dalla vista, con animali ben visibili o implicitamente presenti e con qualche nuvola. Come conclusero gli autori dello studio originale, queste sono tutte caratteristiche che sono spesso presenti nei calendari artistici o nella progettazione dei parchi pubblici, a sottolineare la presenza di una ben radicata e istintiva tendenza estetica in fatto di ecosistemi variegati e ricchi di biodiversità.

Ora, se è vero, come sembrano suggerire i dati, che la presenza di questo tipo di preferenze ha probabilmente una ragione evolutiva, è evidente che la tutela dell’ambiente e della biodiversità, in una parola la valorizzazione degli ecosistemi in opposizione al loro degrado antropico, ha un valore estetico meritevole di tutela non meno di quanto vale per opere d’arte, urbanistiche o architettoniche di grande valore percepito. In aggiunta cioè a tutti i puntuali vantaggi che la conservazione di certi ecosistemi hanno per la sopravvivenza in buone condizioni della nostra specie, vi è un valore più immediato e di pronta percezione, come mostrano gli studi sui bambini: la bellezza intrinseca che dischiudono ai nostri occhi una barriera corallina, una foresta boreale, un ghiacciaio alpino e ognuna di quelle iconiche visioni che tutti abbiamo imparato a conoscere, se non altro grazie alla televisione. Se proteggiamo un quadro di Picasso, non si vede perché non dovremmo mantenere integra una spiaggia e proteggere la varietà di specie che la frequenta; se ammiriamo un Monet, non dovremmo considerare meno meritevole di ammirazione il Monviso; e così, in un’infinita serie di esempi, dovrebbe essere chiaro perché uno dei motori primari che dovrebbe alimentare il nostro sforzo di tutela ambientale dovrebbe essere il senso di bellezza che promana dalla moltitudine dei viventi e dei paesaggi del nostro pianeta. Questo senso è cablato nei nostri cervelli e nel nostro istinto: la sua riscoperta, e l’educazione a considerare il valore verso cui esso è orientato, sono compito della cultura e della politica, senza aspettare che la ricerca scientifica ci spieghi quali danni conseguono dall’ignorare il naturale richiamo del bello.

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