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Cattivi scienziati

La ricerca che manca all'Italia. Come non perdere il treno del Pnrr

Enrico Bucci

Logiche spartitorie, burocrazia, scarsità di risorse ed errori nella destinazione dei fondi hanno condannato il nostro paese a un ritardo ormai cronico e all'impreparazione. Problemi da risolvere e rimedi per non sprecare l'occasione che arriva dall'Europa

Credo che in molti possiamo convenire su una semplice osservazione: quando vi è scarsità di risorse, la disponibilità improvvisa di queste può causare una competizione disperata e distorcente, a tutto vantaggio dei gruppi sociali più forti, e a discapito dell’impiego auspicato originariamente per quelle risorse.

In un paese la cui ricerca è cronicamente sottofinanziata, ed in cui i già pochi fondi sono oltretutto destinati quasi completamente sulle basi di logiche spartitorie e senza controllo finale sul loro effetto nel promuovere progetti davvero innovativi e nell’ottenere risultati significativi e corrispondenti alle attese, arrivano oggi un certo numero di quattrini, grazie ai finanziamenti speciali del Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).

 

Vi sono innanzitutto, come sempre, delle osservazioni in merito all’entità del finanziamento previsto per la ricerca pura, che sono ampiamente sottodimensionati rispetto a quelli di un paese delle dimensioni economiche dell’Italia. Come ben circostanziato in analisi più approfondite di quanto sia possibile qui, il problema maggiore, comunque, non è solo legato all’entità del finanziamento, ma alla gestione del processo di selezione, ivi inclusa la scelta dei temi di ricerca da finanziare, all’iter burocratico prima, durante e dopo l’erogazione, alla confusione circa la destinazione dei fondi e, soprattutto, al forte controllo politico della destinazione dei fondi: sia chi decide e controlla la direzione del finanziamento, sia chi lo riceve, deve alla politica la sua selezione nei corrispondenti organismi di valutazione e nelle posizione di vertice delle istituzioni scientifiche italiane che riceveranno i fondi, o comunque alla politica fa riferimento continuamente.

 

Cominciamo dal primo dei punti elencati: sarebbe ben necessario che, in Italia, fosse possibile fare più ampio ricorso alla fantasia dei ricercatori nella proposta di idee progettuali, anziché indirizzare la loro attività in larga maggioranza verso problemi, temi e argomenti già prestabiliti, spesso allo scopo di premiare in partenza gruppi di ricerca e cordate con specifica esperienza pregressa. La quota destinata a progetti di ricerca a tema libero, da valutare poi ovviamente in fase di selezione, dovrebbe essere molto più ampia: senza questa possibilità, infatti, il grosso delle ricerche più innovative si perde, spesso spingendo i ricercatori con idee nuove, ma poco spazio, a cercare ospitalità in altri paesi.

 

Il secondo problema, quello della burocrazia asfissiante ed inutile, è un male endemico del nostro paese: la scrittura di una domanda di finanziamento è diventata ben più complessa di quella della richiesta di un mutuo, ma soprattutto la burocrazia coinvolta non ha nessuna reale efficacia nel prevenire gli abusi, nel documentare davvero il rispetto sostanziale e non formale delle regole, ed infine nel conservare traccia di ciò che un progetto realmente realizza, a parte le carte che la stessa burocrazia richiede e la ovvia e sacrosanta documentazione di spesa. Oltre che inutile, il grosso di questa burocrazia – che opprime fra l’altro spesso anche gli stessi funzionari amministrativi deputati a seguirla e a metterla in atto – finisce per costituire un potente freno alla partecipazione ai bandi per coloro che non dispongono di rodati sistemi di produzione documentale, spingendo ancora una volta ricercatori, che sarebbero patrimonio pubblico se potessero lavorare più facilmente, a cercare la collaborazione del privato o delle altre nazioni. Naturalmente, una burocrazia ipertrofica e autostimolante finisce poi per affogare anche il processo di selezione e revisione delle domande, trasformandolo in un esercizio il cui esito è prevedibile attraverso la teoria dei giochi; perché la burocrazia favorisce, anziché rendere più difficoltoso, l’accordo spartitorio fra amici e conoscenti, e allontana un processo di revisione indipendente e internazionale – dove per esempio almeno 3 revisori su 4 non siano né italiani né amici di italiani – visto che chi non ha interesse diretto in Italia non si avventura nel conundro burocratico che anche il processo revisionale richiede (oltretutto a costo zero o per compensi irrisori).

 

Il terzo problema, quello della confusione nella destinazione, è presto spiegato: spesso in Italia si finanziano in un unico bando le infrastrutture necessarie alla ricerca, le idee, il trasferimento tecnologico, la collaborazione scientifica eccetera. Bisognerebbe avere strumenti separati: le buone idee vanno finanziate in quanto tali, le infrastrutture con azioni diverse, e così pure le collaborazioni scientifiche e con il settore privato. Mettere tutto in un solo calderone significa che, alla fine, il valore è pesato sulle collaborazioni più ampie – le cordate numericamente e politicamente più forti – sia perché fanno contenti tutti, sia perché si crede che finanziando ampi raggruppamenti si raggiungano necessariamente risultati migliori. Questo incentiva la formazione di filiere spartitorie, in cui la famigerata “massa critica” è solo garanzia di finanziamento di branco, invece che di reale peso nei risultati che si conseguiranno alla fine. Bisogna incoraggiare bandi per singoli ricercatori/laboratori di ricerca, limitando i “progetti a filiera” che, oltretutto, rischiano di favorire la spartizione programmata fin dalla fase di revisione iniziale, visto che più sono ampie e limitate di numero le filiere, più è facile che abbiano rappresentanti nei vari comitati ministeriali.

 

Perché poi non garantire fondi di ricerca a chi abbia da poco iniziato la sua carriera scientifica, al di là dell’età anagrafica? E perché non preparare un portale unico, in cui siano consultabili tutte le domande presentate, tutte le revisioni effettuate, tutti i nomi dei revisori e tutti gli esiti dell’istruttoria? E dove, magari, si possa osservare il procedere dei progetti, con una valutazione finale degli esiti chiara, succinta e trasparente, così che tutti possano valutare chi ha avuto successo, chi no, e per quali motivi?

Naturalmente, la risposta al perché queste cose non si facciano, in maggior parte, risale in una semplicissima circostanza, che rende unico il nostro paese. Tutte le istituzioni scientifiche del nostro paese, dal CNR, all’ASI, all’INFN, persino l’Accademia dei Lincei, hanno i propri vertici nominati per legge dalla politica; e quando questo non accade per legge, come nel caso dei rettori universitari, le funzioni sono fortemente influenzate e sensibili alla politica, costituendo sempre più spesso gradini intermedi nella carriera politica dei professori universitari.

 

Politica, sindacati e ministeri, avvalendosi di diversi strati di burocrazia, mantengono strettissimo controllo su ogni forma di finanziamento pubblico della ricerca: questo, sia ben chiaro, con la connivenza dei principali attori accademici, che trovano certamente vantaggioso l’accordo utile e produttivo con le sedi da cui provengono i finanziamenti, soprattutto considerando che tramite questo accordo sono in grado a loro volta di regolare e controllare l’intera vita accademica e scientifica del paese, fatte salve lodevoli eccezioni. Ecco perché, nonostante da decenni si cerchi di ottenere un’agenzia per la ricerca indipendente dalla politica anche nel nostro paese, anche nella ultima legge di bilancio dello Stato non ve ne è traccia; ecco perché, alla fine, la parte più innovativa e meno allineata della comunità scientifica italiana è soffocata, e può solo contare, quando è fortunata, sull’appoggio di “padri nobili” con visioni un po’ meno meschine; ecco perché, nel momento contingente, grande è la paura che anche questi ultimi, esigui fondi destinati alla ricerca di base, saranno come sempre spesi in parte per tamponare croniche emergenze, in parte per sistemare persone e laboratori da troppo tempo esangui – non importa se meritatamente o meno – ed infine per continuare a rafforzare il monopoli delle cordate accademiche, vendendolo oltretutto come l’unico in grado di mantenere quel minimo lumicino vitale che consente ai ricercatori veri di svolgere le proprie attività (a patto di funzionare da foglia di fico per tutti gli altri).

 

È bene che i cittadini lo sappiano fin d’ora: è sempre possibile spendere molto meglio il danaro pubblico, ma nella ricerca di base disperderlo male è ciò che sta condannando il nostro paese alle retrovie culturali e all’impreparazione presente e futura. Certo nulla cambierà per questa paginetta, invisibile sulle scrivanie di chi si appresta ad ingoiare questi nuovi miliardi di euro all’ombra del familismo amorale in cui siamo immersi; ma devo a coloro che si aspettano grandi cose dalla ricerca italiana e dal suo finanziamento un pochino di onesta verità sullo stato delle cose, e devo anche prestare un piccolo spazio a quella silenziosa ed eroica parte dell’accademia fatta da ricercatori di valore, i quali non hanno la voce che ho io.

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