Foto LaPresse

La pazienza che ci vuole nella scienza e nel comunicarla

Enrico Bucci

Ne hanno bisogno da sempre i ricercatori per il loro lavoro, e oggi ancora di più, esposti come sono a social e talk-show. Ne ha bisogno la comunità afflitta dal Covid. Viaggio nelle forme di una virtù che è anche chimica del nostro cervello

In uno dei primi libri scientifici illustrati attraverso l’uso di fotografie, “The expression of emotions in man and animals” pubblicato nel 1872 da Charles Darwin, una delle illustrazioni è una fotografia che ritrae Oscar Rejlander, allo stesso tempo fotografo e soggetto di molte delle foto, nel simulare quello che secondo Darwin è il correlato fisico che esprime la pazienza. 

La pazienza è stata per millenni riconosciuta come una virtù cardinale dell’essere umano; spogliata del suo significato morale, essa potrebbe essere definita come quell’atteggiamento interiore che permette di attendere senza tensione un accadimento futuro positivo e di tollerare meglio l’arrivo di uno negativo, rimandando o evitando la propria reazione allo scopo di raggiungere il massimo vantaggio e il minimo sconvolgimento emotivo possibili.

 

Questo tipo di atteggiamento nel ricercatore e nello scienziato è richiesto dalla professione stessa: è uno strumento che serve a moderare l’indefettibile stress legato all’attesa di aver accumulato abbastanza dati per mettere alla prova una certa ipotesi, per poter descrivere un certo fatto o anche semplicemente per tollerare gli innumerevoli fallimenti dovuti alla libera formulazione di affascinanti ipotesi, uccise dalla brutale realtà degli esperimenti.

Tuttavia, vi sono altre forme di pazienza che sembrano oggi essere richieste, proprio ai ricercatori e ai tecnici, cui essi sono scarsamente abituati: la prima di queste è la capacità di non scomporsi di fronte alla mancanza di competenze e di linguaggio appropriato di moltissimi interlocutori, i quali sono sì genuinamente interessati ad apprendere qualcosa, ma non sono nelle condizioni di comprendere se non a prezzo di grandissimi sforzi da parte di chi spiega. Chi ha alle spalle esperienza di insegnamento può essere meglio preparato, ma il problema è che l’interlocuzione con il pubblico, durante la pandemia, è divenuta frenetica, senza regole, su scala vastissima ed estremamente frustrante per l’esperto, che si vede letteralmente assediato da moltissime domande, su argomenti magari per lui di minimo interesse perché ovvi, reiterate continuamente da moltissime persone, attraverso i più diversi canali e con i toni e i modi più diversi.

Oltre al pubblico in buona fede, vi è poi una fetta di popolazione di consistenza senza dubbio minore, ma molto attiva e spesso ben coordinata, che si dedica invece a un vero e proprio stalking nei confronti dei ricercatori e degli esperti. Lo scopo di queste persone, molto spesso manipolate da chi può attraverso la creazione di simili gruppi guadagnare visibilità, voti o denaro che all’interno delle comunità raziocinanti non gli sono riconosciuti, è sempre quello di dimostrare l’errore del ricercatore e della comunità scientifica, la fallacia dello stesso metodo scientifico, la parità delle opinioni non supportate con gli argomenti scientifici; e non di rado la tecnica è quella dell’insulto, del dileggio, della scaramuccia fine a sé stessa, moltiplicate all’infinito per atterrare l’interlocutore. Anche in questo caso, i ricercatori e la comunità scientifica sono scarsamente preparati a sopportare o reagire nel modo idoneo, e non è rado che finiscano per porsi sulla difensiva: la pazienza necessaria a tollerare e quindi mettere in scacco le masnade di scimmie da tastiera, gli urlatori da talk-show, i titolisti malevoli o i seguaci di qualche movimento politico non è una virtù cui il ricercatore, il medico o il tecnico sono stati addestrati, ma in tempo di pandemia sarebbe invece richiestissima.

 

La comunità scientifica, tuttavia, non è che un tassello, pur importante, della società in cui tutti viviamo, cioè di quella comunità umana di individui e categorie caratterizzati da aspirazioni, interessi, sogni, abitudini, linguaggi, professioni e in una parola tratti e caratteristiche sociologici diversi. Il complemento della comunità scientifica – che, visto dagli scienziati, è genericamente inquadrato come “pubblico” – è in realtà costituito da altre comunità, altrettanto importanti e di pari diritto della comunità scientifica; e anche a queste comunità è richiesto esercizio di nuove e inattese forme di pazienza nei confronti dei ricercatori, specularmente a quanto è richiesto agli scienziati.

 

Le frettolose dichiarazioni contrastanti di narcisistici membri della comunità scientifica, per esempio, espongono tutte le altre componenti della società al difficile compito di tollerare inutili fanfaronate, disgustose diatribe, diversioni dagli argomenti che davvero interesserebbero; ma, soprattutto, concorrono a fornire un’immagine di poca utilità del metodo scientifico, perché i suoi stessi presunti utilizzatori arrivano a fare affermazioni o a dare indicazioni contrastanti, pur di prevalere nel dibattito pubblico e titillare così il proprio ego. Peggio: la fretta di presentare le proprie opinioni come fatti tecnici definitivi porta al rapido verificarsi di errori di previsione facilmente rilevabili, così che, alla fine, perdendosi l’utilità del discorso scientifico, si finisce per scegliere la propria guida scientifica come fosse un guru da seguire, cioè basandosi sull’affinità con esso. Si preferisce così confondere la scienza con quanto detto dal singolo ricercatore per cui si tifa, dimenticando che la conoscenza scientifica è impersonale ed è il solo prodotto di un metodo, indipendentemente dalle singole persone che lo utilizzano. Ecco, quindi, che in realtà anche a chi segue il dibattito scientifico, in questi tempi eccezionali, è richiesta una forma importante di pazienza: la capacità di non lasciarsi muovere da atteggiamenti, parole tranchant, interlocuzioni fulminee e predizioni che soddisfano le proprie aspettative fatte da singoli ricercatori, aspettando invece il tempo necessario a verificare almeno quanti diversi esponenti della comunità scientifica sostengono una certa tesi, riferendosi a quali dati e soprattutto a valle di quale mole di analisi e sperimentazioni. La pazienza, cioè, di tollerare svarioni, dichiarazioni e apparizioni di singoli scienziati, che spesso costituiscono un insulto anche per il senso comune, rifugiandosi nell’idea che la scienza è altro dai suoi singoli esponenti, e mirando ad attendere un più solido terreno in un tempo maggiore, che non sia quello della dichiarazione in un talk-show; la pazienza e il tempo necessari, quindi, a che sia possibile identificare con sicurezza almeno una maggioranza di opinioni concordi nella comunità scientifica, senza scomporsi se questa non si forma istantaneamente e se nel processo le voci si contraddicono l’una con l’altra.

In aggiunta, a chi chiede alla comunità scientifica di fornire risposte è richiesta la stessa pazienza cui sono allenati i ricercatori – quella di attendere i dati – e pure una forma di pazienza molto più inusuale e difficile da conseguire: quella necessaria ad affrontare con consapevolezza il fatto che il futuro è, nel migliore dei casi, probabilistico, e che quindi ogni previsione che gli scienziati possono fare può essere smentita, in una percentuale di casi più o meno ampia secondo la particolare natura del fenomeno di cui si discute. Il futuro può essere stocastico, cioè completamente casuale, deterministico e prevedibile, deterministico ma caotico (cioè non prevedibile) e una miriade di altre gradazioni e combinazioni fra queste possibilità, che dipendono da quale sia il sistema su cui intendiamo fare previsioni; questo non deriva da un limite della scienza e dei modelli che usa, ma dalla natura stessa dei fenomeni e del mondo. Veder smentite previsioni di interesse, naturalmente, richiede un grande esercizio di pazienza, così come sentirsi dire che non è possibile fare previsioni ragionevoli; ma mentre la comunità scientifica è più o meno consapevole dei limiti delle proprie previsioni, il pubblico spesso non lo è, per cui rimane frustrato nel contare quelli che considera i fallimenti accumulati da epidemiologi, statistici e scienziati di ogni sorta.

Eppure, solo se queste diverse forme di pazienza – quelle dei ricercatori e quelle del resto delle comunità che compongono la nostra società – si incontreranno, sarà possibile regolare e affrontare in maniera migliore il flusso infodemico di informazioni destabilizzanti che la sete di nuove notizie e nuovi dati, scatenata da un futuro incerto, ha riversato su tutti noi; e solo a questa condizione sarà possibile recuperare una maggiore serenità, sia nel dibattito pubblico sulla pandemia e sulle misure da intraprendere, sia dal punto di vista personale.

Per questa ragione, diventa fondamentale chiedersi se non vi sia modo di incrementare la quota di pazienza di ciascuno di noi, e con essa la propria serenità interiore, o almeno la quota di persone pazienti nei diversi segmenti della nostra società.

 

Nel seguito, cercherò di dimostrare come una possibile maniera di ottenere questo risultato sia quello di accrescere la nostra personale conoscenza su diversi punti specifici, a partire da una realizzazione semplice: dobbiamo imparare che è la nostra stessa biologia a renderci più o meno pazienti, e quindi dobbiamo dare per scontato che incontreremo persone meno tolleranti e che noi stessi, rispondendo a eventi fisiologici che accadono nel nostro cervello, possiamo diventare più o meno capaci di esercitare pazienza. Abituarci all’idea che esistono livelli di tolleranza diversi, determinati dalla chimica del cervello delle persone, è un passo che mi sembra importante per arrivare a una maggiore tolleranza sia della propria stessa impazienza che di quella degli altri, proprio come vivere in una società multietnica ci fa abituare al colore diverso della pelle delle persone, eliminando alcune reazioni che potremmo avere istintivamente.

 

Pazienza e serotonina

La definizione che sin qui abbiamo dato di pazienza è di tipo comportamentale; non ci siamo però chiesti se esista un correlato neurofisiologico, in grado di influenzare almeno certi comportamenti in direzione di una maggiore o minore pazienza.

Per rispondere sperimentalmente a questa domanda, è stato necessario innanzitutto identificare una particolare forma di situazione da studiare, in cui fosse possibile misurare qualche grandezza correlata a quello che noi chiamiamo un atteggiamento paziente.

La scelta è caduta sulla situazione di attesa di una gratifica futura, la quale fosse tanto più certa quanto più lunga l’attesa, a fronte di una mancata gratifica nel caso in cui si smetta di attendere. Questa situazione, definita tecnicamente di gratifica ritardata, è vitale per la sopravvivenza umana. Ci consente di sopprimere i nostri impulsi a comportarci in modo da ottenere una gratificazione istantanea per raccogliere ricompense in seguito; è uno dei modi in cui esercitiamo la nostra pazienza, in vista di un successo futuro, e bene assomiglia ad alcuni dei tipi di pazienza che abbiamo descritto prima. Sebbene sia una strategia cognitiva umana vitale, si sa poco su come la pazienza sia regolata nel cervello.

A fine novembre 2020, uno studio di ricercatori giapponesi ha rivelato come, di fatto, questo tipo di pazienza sia fortemente influenzato dall’azione di un particolare neurotrasmettitore, la serotonina, sulla corteccia orbitofrontale e su quella prefrontale mediale, due aree specifiche del cervello, le quali contribuiscono in modo diverso a regolare il comportamento di paziente attesa di una ricompensa futura. In breve, i ricercatori hanno dimostrato che rilasciando serotonina specificamente in queste due regioni cerebrali, ma non in altre, i ratti utilizzati nello studio erano disposti ad attendere più a lungo la ricompensa che si aspettavano.

La corteccia orbitofrontale, se stimolata dalla serotonina, rendeva i ratti capaci di attendere più a lungo sia se il tempo di attesa era sempre lo stesso, sia se variava a caso, e funzionava tanto meglio quanto più alta era la ricompensa attesa; la stimolazione con serotonina della corteccia prefrontale mediale, d’altra parte, funzionava meglio se il tempo di attesa era variabile, e non prefissato. Queste differenze hanno mostrato che il comportamento di paziente attesa dei ratti è frutto di integrazioni da parte di diverse aree cerebrali, variabili a seconda del contesto e delle attese, ma sempre sotto la profonda influenza della serotonina.

Poiché tanto la capacità di produrre quantità più o meno elevate di serotonina, quanto quella di avere più o meno recettori funzionali espressi nei neuroni di interesse, sono sotto il controllo sia dei geni che della storia dello sviluppo di un particolare cervello tanto in noi che nei ratti, è chiaro che ciascuna persona è in linea di principio costitutivamente diversa per quel che riguarda questo particolare circuito neurochimico, a meno che non sia vera l’improbabile ipotesi di una differenza rilevante fra noi e i ratti proprio da questo punto di vista.

Questa differente predisposizione all’attesa paziente di una gratificazione, inoltre, è modulata dalle circostanze, perché se guardiamo ai ratti dipende sia dal peso attribuito alla gratificazione finale, sia dal fatto che sia noto o meno il tempo in cui arriverà, sia infine dal sapere che la gratifica arriverà.

L’esempio che ho portato, che illustra come la nostra individuale e temporanea neurochimica agisca su quella che di solito è considerata una “virtù cardinale”, frutto di allenamento e lavoro morale, dovrebbe farci considerare la pazienza – e l’impazienza – degli altri meno legata a difetti morali o meriti, e più alla costituzione fisica; e così come non attribuiamo colpe ad alcuno per il colore dei capelli, dovremmo almeno cominciare a chiederci se parte di certi atteggiamenti più o meno pazienti, invece di essere condannati o esaltati dal nostro tribunale etico interiore, non siano semplicemente un tratto fisiologico dei nostri interlocutori.

Come sopportiamo l’impazienza in certe categorie – i bambini, ad esempio, o gli adolescenti sotto l’effetto delle tempeste ormonali caratteristiche della loro età – forse potremmo farlo nei confronti dei nostri interlocutori: sia che siamo ricercatori ed esperti, sottoposti all’impaziente valanga di richieste tipica di questa pandemia, sia che sia invece il pubblico, di fronte alla impaziente voglia di molti ricercatori nel comunicare ciò che ritengono importante, anche quando l’incertezza associata ai fatti e alle previsioni che vengono esposti è molto alta.

Sapere che anche la nostra impazienza potrebbe essere solo il risultato di una temporanea tempesta neurochimica, scatenata dalle circostanze, può pure aiutarci a controllare la nostra impazienza, cioè a renderla meno impellente, e quindi a pazientare.

Questo punto evidenzia come la conoscenza delle cose è un aiuto a guarire l’impazienza; ma se è così, esistono fatti che, se noti, aiutano a coltivare le forme di pazienza che sono richieste durante questa pandemia, come le abbiamo elencate in apertura di questa breve discussione?

 

Scienza e pazienza

In una conferenza tenuta nel 1966 durante il quindicesimo convegno dell’Associazione nazionale degli insegnanti, il grande fisico e premio Nobel Richard Feynman ebbe a dire “ho imparato allora di che sostanza era fatta la scienza: era la pazienza”.

E’ una lezione che chiunque si sia dedicato alle scienze sperimentali abbastanza a lungo ha dovuto imparare, ed è una lezione che vale la pena riesaminare tutti, perché è proprio ciò che serve sapere per affrontare meglio quanto sta succedendo durante il nostro forzoso apprendimento delle caratteristiche di Sars-CoV-2 e della pandemia che ha causato.

Quando riempi un foglio di calcolo con decine di migliaia di valori sperimentali, dovendo mantenere la massima concentrazione per evitare di commettere errori; quando attendi per ore, per giorni, per mesi o per anni interi il verificarsi di eventi rari, per avere abbastanza dati da studiare; quando ripeti la lettura di migliaia di basi di codice genetico; quando semplicemente riempi un’altra pagina del quaderno di laboratorio con dati e osservazioni, che molto probabilmente finiranno in un cassetto o nel cestino; in tutti questi e in moltissimi altri istanti – anzi nella maggior parte del tuo tempo – come ricercatore sei impegnato allo stremo in un’attività ripetitiva che richiede attenzione massima, ben sapendo che ogni errore può compromettere la futura possibilità di poter cominciare finalmente un’analisi dei dati, che è il modo di interrogare il mondo fisico per ottenere risposte.

L’attesa di una quantità sufficiente (ove sufficiente ha un preciso significato tecnico, pesato con tecniche statistiche) di dati puliti da esaminare è la prima forma di pazienza, che sarebbe bene la società tutta apprendesse dai ricercatori, a cominciare dai giornalisti fino a tutti i cittadini ansiosi di avere risposte. Oggi siamo tutti in attesa spasmodica di risposte sulla nuova variante di Sars-CoV-2, la Omicron; invece di ascoltare chi si lancia nel dipingere scenari possibili, di cui però non è possibile pesare la probabilità, sarebbe bene attendere dati per valutare il reale pericolo che questa variante costituisce.

Dobbiamo abituarci a ricevere risposte graduali, non istantanee certezze tutto-o-niente, esattamente come gli scienziati sono abituati ad ottenere: abbiamo prima saputo che la variante aveva diverse mutazioni, che potevano avere certi significati in termini di diffusività e immunoevasione, e adesso cominciamo a vedere che almeno in termini di capacità di aggirare la nostra risposta anticorpale le capacità di Omicron sembrano confermate; ma dobbiamo ancora sapere con un margine di incertezza più ristretto a quanto ammonti la diminuzione di capacità neutralizzante nei vaccini, e certamente dobbiamo aspettare ancora per avere valutazioni sulla trasmissibilità e sulla patogenicità del virus, per il semplice fatto che questi dati discendono dall’epidemia reale che si sviluppa in un certo tempo e che inoltre richiede di raccogliere dati non troppo legati a un singolo paese, non ricavabili in nessun caso da un istantaneo calcolo in un computer.

Attendere i dati, come raccoglierli, senza porsi in agitazione prima di averli esaminati è la medicina che aiuta a tollerare un primo tipo di incertezza, quello riguardo all’esito di una misura importante per delineare scenari futuri con maggiore affidabilità. Questo particolare atteggiamento mentale, che è di non darsi pensiero altro che del raccogliere i dati, invece che del loro futuro significato, è nei ricercatori indispensabile per non creare bias proprio nel momento cruciale da cui dipende poi la possibilità di condurre un’analisi. D’altra parte, senza dati esistono al massimo futuri possibili, non probabili, ognuno impercettibilmente diverso da un altro. Ecco quindi cosa per esempio potremmo fare nell’attesa di dati meno preliminari sulla variante Omicron: possiamo escludere scenari impossibili, sulla base di ciò che già sappiamo, considerando poi che fra gli scenari che restano, è più probabile che si verifichi uno qualunque fra i tanti scenari intermedi, anziché precisamente uno degli scenari più estremi – uno in cui il virus sia davvero incontenibile, molto letale e disastroso, come uno in cui tutto vada benissimo e questa sia la variante che annuncia la fine del problema. L’importante, in ogni caso, è non attaccarsi troppo a un particolare futuro possibile, cercando di adattare i dati a quello che preferiamo; accontentiamoci di sapere che i casi particolari del peggiore e del migliore futuro sono, per definizione, meno probabili di uno qualunque dei futuri meno estremi.

Abituarsi a pazientare nell’attesa di dati ed analisi, rifiutando il rollio ed il beccheggio emotivo dovuti ai cambi di posizione continua che si hanno quando si formulano ipotesi senza ancora supporto nei fatti, è il primo degli elementi che ci potrebbero portare a essere più tranquilli; vi è però un secondo elemento di pazienza, a cui si è già accennato, che potremmo apprendere dagli scienziati e dai ricercatori.

La scienza è incerta: non nel senso che gli pseudoscienziati e i cospirazionisti di ogni risma cercano di utilizzare per dare una possibilità di esistenza alle proprie panzane, ma nel senso che le affermazioni scientifiche sul mondo e sul suo futuro sono, nel caso di maggior successo, solo di tipo probabilistico. Gli scienziati, i ricercatori e i tecnici sanno che le proprie affermazioni sono corredate di una probabilità che ne pesa la possibilità di essere giuste, e di un margine di incertezza che indica in quale intervallo ciò che si afferma è vero con la probabilità indicata; ma spesso dimenticano, più o meno volutamente, con maggiore o minore ignoranza, di far presente questa importantissima caratteristica delle proprie affermazioni quando comunicano al di fuori dei consessi tecnici. Intendiamoci bene: comunicare la probabilità di verità di un’affermazione e l’intervallo di incertezza in cui ci si muove rappresenta un fondamentale vantaggio delle affermazioni scientifiche rispetto a quelle pseudoscientifiche o di altro tipo, perché dimostrano la precisione di un metodo che è in grado di assegnare una probabilità di errore alle proprie stime, al contrario delle baggianate tenute per vere, per esempio, da chi proclama le verità della biodinamica o dell’astrologia; dunque la quantificazione dell’incertezza è non solo connaturata al metodo scientifico, ma rappresenta uno dei maggiori benefici che provengono dalla sua applicazione. Poiché però il grado di certezza di un’affermazione o di una previsione scientifica è sempre inferiore al 100 per cento, osserveremo senza dubbio nei più svariati campi il riottoso ribellarsi del mondo naturale alle previsioni degli scienziati; questo fatto non dipende necessariamente da loro errori, ma dalla natura intrinseca del metodo scientifico e del mondo fisico. Socrate sapeva di non sapere; un moderno scienziato è in grado di quantificare il proprio dubbio, e sa spiegare donde quella stima proviene. Uno pseudoscienziato, di converso, è sempre certo, e quando è furbo formula affermazioni in un modo tale che non siano mai falsificabili – dicendo, per esempio, che l’effetto di una terapia non può essere generalizzato al di fuori del caso individuale, sta in sostanza sfuggendo a ogni verifica di efficacia, potendo sempre ricondurre a un caso particolare il fallimento di un farmaco.
La scienza è dunque una questione di probabilità; a volte, tuttavia, queste sono pari per una grandissima moltitudine di possibilità. E’ il caso dei sistemi caotici, i quali possono evolvere nel tempo in moltissime diverse maniere, senza che noi possiamo prevedere in nessun modo che abbia senso quale sarà quella che si concretizzerà; è il caso, per esempio, della ripresa di un’epidemia innescata da una nuova variante. In questi casi, non vi è raccolta di dati sufficiente ad anticipare con approssimazione ragionevole ciò che effettivamente succederà; ancora una volta, non per limitazioni della scienza – che anzi ha dimostrato perché sia così – ma per il modo di funzionare di certe parti del mondo reale in cui viviamo.

Questo lungo elenco di incertezze connaturate alla conoscenza scientifica non solo sconcerta chi scienziato non è, ma spazientisce tutti quando previsioni importanti falliscono, perché un tiro di dadi della sorte sconfigge le probabilità su cui era ragionevole puntare a priori; senza contare i casi in cui, in realtà, le previsioni non falliscono, perché ciò che si realizza è nell’intervallo definito dalla probabilità di realizzazione prescelta, ma è molto lontano dalla media di ciò che ci si attendeva.

E’ qui che bisogna pazientare, scendendo a patti non con gli scienziati o con la scienza, ma con l’irriducibile natura della realtà, la quale è ben diversa da quel tavolo da biliardo newtoniano in cui credevano di muoversi i primi scienziati moderni.

Come tutti i ricercatori, i cittadini devono comprendere l’incertezza del mondo; e comprenderne modi e ragioni in termini analitici, come fanno gli scienziati, aiuta a sopportarla e pazientare quando le previsioni falliscono, perché non si tratta più di un evento inaspettato.

 

Il ricercatore impaziente

Io sento personalmente il dovere di aiutare la comunità in cui vivo, attraverso lo strumento che ho imparato a usare, ovvero l’analisi dei fatti e dei dati con metodo scientifico nel settore delle scienze biomediche. E’ un dovere che ritengo di avere perché sono nato in una nazione di cittadini che con le loro tasse e le loro leggi mi hanno messo a disposizione una formazione pubblica e in aggiunta nel mio caso anche gratuita, nonostante non fossi in condizioni da non poter pagare per averla; ed è poi un dovere che ritengo di avere in senso più ampio, perché ritengo che la conoscenza scientifica possa sopravvivere e prosperare solo se aperta e condivisa il più possibile per il bene e per il piacere di tutti, non chiusa fra i libri e le accademie dei tecnici; tanto più se essa, indirizzando i comportamenti delle persone in modo più razionale, può contribuire a migliorare la vita di tutti e a mitigare gli effetti di disastri come quello pandemico.

Eppure, quel tipo di pazienza professionalmente acquisita di cui abbiamo appena discusso non mi guarisce affatto da altre forme perniciose di impazienza, che possono arrivare a impedirmi di adempiere ai doveri che ho appena enunciato.

Confesso di non avere pazienza, al di fuori di quella per cui sono addestrato: quando qualcuno commenta uno dei miei volenterosi scritti sostenendo che “la variante Omicron è stata inventata per promuovere la terza dose”, non riesco a tollerarlo; né posso evitare di adirarmi per le sciocchezze ripetutamente sentite nelle aule del Senato circa l’insussistenza di una pandemia o per quelle del collega di turno che preconizza la “variante buona” sulla base di ciò che vede nelle sue corsie ospedaliere. Manderei tutti al diavolo; e questo sentimento deve essere non solo piuttosto comune tra i miei colleghi, viste le reazioni non dissimili dalle mie, ma addirittura incoraggiato da una bella fetta di cittadini, trasformatisi in tifosi, che incitano il ricercatore di turno ad “asfaltare” l’ultimo insolente provocatore o il collega che ha affermato qualcosa che appare infondato.

Non essendo stato formato alla comunicazione, ma solo alla spiegazione, ho dovuto imparare sul campo una certa forma di pazienza, e naturalmente questo apprendimento è imperfetto e non paragonabile a quello dei professionisti della comunicazione; eppure cercherò di condividerlo qui, a beneficio dei miei lettori, per valutare se non ritengano come me che i ricercatori dovrebbero imparare certe forme di pazienza, diverse da quelle a cui sono stati addestrati.
Spesso noi ricercatori siamo dotati della pazienza necessaria a spiegare; ma comunicare con la massa è altra cosa, e richiede una corazza che, almeno personalmente, mi sono dovuto formare sul campo, perché nessuno mi aveva preparato alla vasta estensione dell’umana insolenza. La pazienza e le tecniche per mantenerla, di fronte ai diffamatori, agli insultatori, ai provocatori e a tutto il variegato bestiario dei disturbatori è però indispensabile, per adempiere a quel dovere cui io – e presumo altri – ci sentiamo chiamati; personalmente, ho cominciato a pensare ai miei persecutori come a delle caratteristiche sfavorevoli di un vasto ambiente inesplorato, e a pazientare come farei di fronte al rumore e alla sporcizia inevitabili in un ampio insieme di dati da esaminare.
Allo stesso modo, il disordinato svolgersi di una fitta sassaiola di domande, anche in buona fede, che data la pandemia mi mitraglia su scala inimmaginabile a causa dei social e degli altri moderni canali di comunicazione mi è soventemente intollerabile, soprattutto quando le stesse, ricorrenti domande sono ripetute da persone inconsapevoli che a quelle ho già pubblicamente risposto. Qui ho trovato che il cercare di costringere i miei interlocutori, per quanto possibile, a chiedere cose che siano in argomento con il tema che si sta discutendo in quel momento può aiutare, sia perché consente a chi vuol fare domande di rintracciare più agevolmente risposte già date, sia perché offre una giustificazione elegante al sottoscritto per evitare chi va fuori argomento, rimandando la discussione alla sede opportuna; in questo modo, anche se ancora imperfetto, ho iniziato a poter meglio tollerare l’incessante interrogatorio.
Vi è poi un’altra abitudine che mette a dura prova quel poco di pazienza che ho, ovvero il continuo richiedere di commentare posizioni di colleghi che l’interlocutore ritiene diverse da quelle che ho espresso oppure semplicemente di interesse. Si tratta di null’altro che della personalizzazione sbagliata della discussione scientifica, in cui la persona che ha detto qualcosa è l’elemento importante, invece che il metodo e i dati a supporto di un’affermazione; personalizzazione che si manifesta anche nel ripetuto utilizzo del principio di autorità, riconosciuta al proprio beniamino di turno e difesa a qualunque costo, o nel tentativo di immaginare ragioni politiche, personali o di interesse dietro ogni discussione scientifica. Io cerco di avere pazienza, ricordando a me stesso che la personalizzazione, il principio di autorità e ogni altra sorta di bias e di fallacia logico-argomentativa sono attese nei miei interlocutori (anche se sorprendenti nei nostri colleghi), perché essi non sono allenati a riconoscerli ed evitarli, proprio come io non sono allenato a giocare a pallone; tuttavia, per quanto si possa essere pazienti, il loro frequente uso e il tempo che ci vuole a dimostrarli agli occhi dell’interlocutore spesso rendono impossibile continuare la discussione. In questi casi, non ho trovato di meglio finora che interrompere l’interlocuzione, anche se ovviamente me ne dispiace (almeno finché non sospetto la malafede).
Chiedo scusa ai miei lettori se ho elencato i miei personali problemi di pazienza nei confronti del pubblico, ma, non essendo un esperto del settore della comunicazione scientifica, posso solo presumere che essi siano largamente diffusi, come pure la letteratura scientifica sul tema sembra indicare; questi esempi, tuttavia, mi sono utili per far notare come speciali forme di pazienza, cui non siamo preparati, vanno coltivate anche nella comunità scientifica, se si intende (giustamente, a mio modo di vedere) interagire con la società per aiutare a contenere il virus attraverso la diffusione della conoscenza scientifica, man mano che viene acquisita.

Ma siamo sicuri che le nuove forme di pazienza richieste al pubblico e quelle richieste alla comunità scientifica siano poi vantaggiose per tutti?

 

Conclusione: la specie paziente

Questa nostra discussione è iniziata con Darwin, e mi sembra quindi appropriato concluderla esaminando con qualche dettaglio l’evoluzione della pazienza nei primati; nel farlo, cercherò di rispondere alla domanda appena sollevata.

Studiando 13 diverse specie di primati,  a partire da piccoli lemuri fino ad arrivare ai gorilla e agli scimpanzé, si è trovata una tendenza interessante.
Al crescere della massa, delle dimensioni del cervello e del territorio occupato, e man mano che ci si allontana dalle basi dell’albero evolutivo dei primati, nel classico test di attesa della ricompensa in cui agli animali è presentato un piccolo quantitativo di frutta, a fronte di uno più grande che potrebbero avere se attendono, si è visto che gli animali più grandi e più evoluti sono capaci di pazientare più a lungo, per ottenere la ricompensa maggiore.

Un lemure nero non attende oltre 15 secondi prima di consumare il quantitativo minore di frutta immediatamente disponibile, mentre uno scimpanzé arriva in media ad attendere oltre 2 minuti. 

Questo indica che, nel ramo dei primati, vi è una tendenza evolutiva che porta verso animali più grandi, con cervello di maggiore dimensione e territorio più vasto, i quali sono via via più capaci di esercitare pazienza in vista di una ricompensa futura; il che significa che vi deve essere qualche vantaggio specifico lungo la linea dei primati, che porta all’evoluzione del tratto della pazienza.

Negli umani, una possibile identificazione di quale possa essere questo vantaggio evolutivo è stata tentata valutando l’emergenza della capacità di cooperare in associazione a diverse distribuzioni di pazienza tra gli individui componenti un gruppo. Sotto la ragionevole ipotesi che la pazienza sia necessaria alla cooperazione, perché serve a tollerare una privazione personale in vista di una ricompensa futura derivante dall’aiuto concesso ad altri, si è potuto spiegare come nel tempo la pazienza sia un tratto favorito, perché la cooperazione è evolutivamente vantaggiosa. 

Che la pazienza favorisca la cooperazione, del resto, è un fatto non sconosciuto e pure dimostrato sperimentalmente; il che ci porta a capire perché, di fronte a un pericolo comune come quello costituito dal virus, la pazienza è una virtù che va coltivata a ogni livello.

I comportamenti cooperativi e altruistici richiesti per affrontare con successo Sars-CoV-2 sono molteplici: si va dalla vaccinazione, che costituisce un atto di protezione collettiva nei confronti dei soggetti più deboli, al sacrificio di alcune libertà personali in nome del bene comune, allo sforzo di molte categorie professionali ben oltre ciò che sarebbe richiesto, fino ad arrivare agli sforzi della comunità scientifica per cercare soluzioni.

La pazienza è uno dei tratti che ci hanno reso umani; con essa, come in passato, possiamo mitigare certi rischi attraverso la cooperazione, reprimendo l’intolleranza.

In più, come ho cercato di illustrare, possiamo beneficiare di un ulteriore, grosso vantaggio dall’esercizio di una speciale forma di pazienza, quello che consiste nell’attendere i tempi della scienza conoscendo i suoi metodi e la sua struttura, sia nel suo raccogliere dati che nel suo quantificare l’incertezza, per guadagnare pace interiore e migliore lucidità di fronte al rapido mutamento delle condizioni pandemiche e al bombardamento infodemico.

Dunque, non mi resta che ringraziare il lettore giunto sin qui, sperando appunto di non averlo tediato.

Di più su questi argomenti: