Photo by Vedrana Filipovic on Unsplash

Cattivi scienziati

In Italia serve una nuova sinergia tra scienze dure e materie umanistiche

Enrico Bucci

Nel nostro paese l'uomo di cultura è per eccellenza il letterato, non certo l’ingegnere, relegato semmai al ruolo di tecnico. Eppure è arrivato il momento di ripensare il rapporto fra scienze umanistiche e matematiche. Qualche risposta alle reazioni indignate all'articolo pubblicato ieri 

Le indignate reazioni di alcuni solerti difensori della cultura umanistica al mio richiamo di ieri, volto a evidenziare la condizione di subalternità in cui viene tenuta la cultura scientifica nel nostro paese, dimostrano quanto sarà difficile superare il solco scavato volontariamente in Italia fra saperi diversi, ma che non dovrebbero mai essere separati. Al test sulla conoscenza da parte del pubblico di umanisti e scienziati italiani, test che proponevo ieri, vorrei oggi affiancare una considerazione per sottolineare ancora il mio punto: in Italia, uomo di cultura è il letterato, ma non l’ingegnere, relegato al ruolo di tecnico – con un’accezione limitativa di questo ultimo termine. Ancora oggi, la definizione di “ingegni minuti” affibbiata ai cultori delle discipline scientifiche dai neoidealisti italiani di un secolo fa è viva e fa danni, nonostante tutte le giustificazioni storiche di contesto che a quella definizione taluno cerca di trovare nella reazione al positivismo.

 

Fatte queste premesse, vorrei rendere ancora più chiaro quanto intendo: non ritengo affatto che la conoscenza delle materie umanistiche debba essere ridimensionata a favore di quelle scientifiche, né in senso generale né in ambito scolastico. Non intendo attaccare lo studio del latino, ma la mancanza di studio della statistica; non nego l’indispensabile bellezza della letteratura o gli splendori del pensiero filosofico, ma non capisco perché l’ammirazione a questi tributata debba significare la riduzione a scarso nozionismo mnemonico di matematica, fisica, chimica e scienze naturali tutte. Non sapere quale sia la definizione di logaritmo o quello di deviazione standard, o peggio faticare nel paragonare percentuali e numeri come evidente dalla discussione pubblica sui dati epidemici, viene visto come una perdonabile difficoltà con “la matematica”; non sapere chi abbia scritto “I promessi sposi” o la “Divina Commedia” o chi abbia affrescato la Cappella Sistina è invece inteso come stigma di inarrivabile ignoranza, roba da bruti descolarizzati.


Il problema non è qui nella seconda parte di questo paragone, ma nella prima: bruti descolarizzati sono anche coloro che non riescono a paragonare due numeri, perché non sono coscienti dell’importanza di un denominatore nel calcolo di una frazione. Che questa non sia la percezione comune, è esattamente il problema su cui cercavo di fare riflettere ieri, evidenziando uno dei momenti storici in cui apertamente in Italia si è stabilito che dovesse essere relegata ai tecnici una certa parte della conoscenza. Che poi si studi ormai male tutto, incluse le materie cosiddette classiche, è sentire comune che mi è stato manifestato da molti lettori (ed è sentire peraltro diffuso in ogni epoca, a giudicare per esempio da quanto scriveva Leopardi); ma questo non intacca affatto l’argomento di cui sopra, circa la percezione di ciò che sia necessario sapere per definirsi colti, così come non consola lo stato uguale o peggiore in cui versano la considerazione e lo studio delle materie scientifiche in altre nazioni.

 

Vorrei quindi concludere guardando all’altro lato della medaglia, ovvero alla desolante mancanza di conoscenze umanistiche che molti scienziati, ricercatori e tecnici manifestano. Il solco scavato tra le due culture, così apertamente rivendicato da Croce e Gentile un secolo fa, infatti, non ha solo marginalizzato la conoscenza scientifica per tanto, troppo tempo; ha pure avuto il deleterio effetto che moltissimi fra coloro che decidono comunque di dedicarsi allo studio di biologia, chimica, fisica, ingegneria eccetera perdano di vista l’indispensabile utilità della riflessione filosofica e storica, non conoscano la logica dell’epistemologia, siano analfabeti dello stato di diritto, ignorino l’utilità del ragionamento filologico, abbiano un’etica spesso primitiva e non colgano il valore che l’approfondimento estetico può portare allo sviluppo personale.


Voglio dire che l’ignoranza è equamente suddivisa fra umanisti e tecnici, solo che si riferisce a quella metà della conoscenza che è oltre il solco che ha generato le “due culture”; ed entrambe le squadre sono convinte di poter fare a meno dell’altra metà, andando incontro per esempio a clamorosi fallimenti comunicativi, etici e giuridici in campo scientifico, come a incredibili incapacità di valutazione del mondo fisico in campo umanistico. Il solco fra le “due culture” va colmato al più presto, rilanciando il programma di Federigo Enriques e di altri, così avversato da Croce e Gentile, per una preparazione di base completa e bilanciata; smettiamola con gli slogan del latino che insegna a pensare, e pensiamo invece a come si insegna il latino.

Di più su questi argomenti: