(foto Ansa)

Siamo un solo gregge

Enrico Bucci

L’immunità la raggiungeremo solo se ci riusciranno anche gli altri stati. Inutile pensare al rispettivo orticello

E così, in appena un anno, abbiamo superato i 100 milioni di casi ufficialmente riconosciuti di Covid-19 – il che significa, in realtà, un numero molto, molto più alto di infezioni da Sars-CoV-2. Nonostante questo numero dica chiaramente che sarebbe ora di smetterla di fare chiasso e di adottare una singola strategia mondiale per il contenimento e per la profilassi con i vaccini che abbiamo nel frattempo sviluppato, ogni nazione e ogni stato, persino ogni regione (come in Italia per la scuola) crede che sia possibile adattare la strategia di contenimento bilanciandola con gli interessi locali più variabili, da quelli di tipo economico fino a quelli di tipo culturale e sociale, in un mosaico caotico di diverse misure, di diverse policy, di diverse attitudini e di diverse soglie di sopportazione del danno alla salute e dei morti conseguenti all’infezione.

 

Da questo punto di vista, dimenticando che la fatidica soglia di immunità di gregge in una pandemia si riferisce al gregge della popolazione mondiale, ogni nazione pensa al suo piccolo gregge locale, credendo di potere raggiungere un equilibrio accettabile attraverso l’endemizzazione del virus; ma questo, ovviamente, non funziona dopo che un virus ha già raggiunto una diffusione locale, sicché in un dato paese o in un dato continente si può avere una continua pressione epidemica da parte dei paesi o dei continenti confinanti. Senza contare che le nazioni ove la vaccinazione non dovesse essere tempestiva e simultanea, o i continenti come l’Africa in cui si dovesse accumulare ritardo, sono quelli in cui il virus continuerà a mutare, rendendo vana la vaccinazione degli stati più ricchi e più avanzati che credono di potere fare i furbi con il virus.

 

Dunque, dal punto di vista del virus, la pandemia implica che siamo un solo gregge, di estensione mondiale; ma ammettiamo pure che questo gregge, superando tutte le disparità culturali, economiche e razziali possa essere vaccinato gradualmente in misura omogenea, fino a raggiungere valori molto alti di copertura in un tempo breve abbastanza da riuscire a superare la velocità della diffusione di varianti immuno-evasive del virus. Resta il fatto che il virus è un virus polispecifico, cioè in grado di proliferare e saltare fra più specie diverse: lo dimostra il caso dei visoni danesi, con l’infezione degli animali negli allevamenti intensivi, la selezione di alcuni mutanti in quegli animali e quindi la reinfezione di addetti umani agli allevamenti con le varianti emerse nei visoni. Anche senza tirare in causa gli allevamenti intensivi di specie diverse, ricordiamo che il virus è continuato a mutare nei pipistrelli, fino a originare prima Sars-1 e poi Sars-2; dunque le concentrazioni di animali selvatici, fonti della zoonosi, continueranno a fornire un ambiente “rifugio” a questo coronavirus o ad altri correlati, qualunque sia il livello di vaccinazione raggiunto.

 

Qual è il rimedio? Come sempre, la ricerca scientifica. Dopo una prima, ragionevole selezione di quelle porzioni di virus che davano la maggior risposta immune nei pazienti, selezione che ha fornito i vaccini della prima generazione, si stanno intanto studiando altri tipi di vaccini, basati su porzioni di virus molto meno soggette a mutazione – nella speranza che anche queste riescano a indurre una robusta risposta immune, se utilizzate per formulare dei vaccini. Se e come ce la faremo non è noto; tuttavia, sappiamo già oggi che potremo almeno provare a inseguire anche le varianti mutanti che dovessero emergere da popolazioni non vaccinate o da popolazioni mutate attraverso la rapida formulazione di nuovi vaccini a Rna, con una velocità prima impensabile; dunque la speranza di essere ancora in grado di fronteggiare questo virus è piuttosto alta, a dispetto delle mutazioni che stanno emergendo – sempre se non esageriamo nella disparità di accesso al vaccino fra nazioni e continenti diversi.

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