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Non c'è un virus buono

Enrico Bucci

Uno studio spiega perché il Covid fa più infetti. E perché possiamo anche ritenerci fortunati così

La radice dell’evoluzione rapida dei virus consiste nel numero enorme di individui e quindi nella grandissima diversità genetica su cui può agire in tempi molto rapidi la selezione naturale. Sars-CoV-2 non fa eccezione. Ce lo dimostra un nuovo studio, non ancora sottoposto a revisione, che ha investigato la varietà genetica del coronavirus in una grande città americana di svariati milioni di abitanti – Houston – sequenziando oltre 5.000 isolati virali nella prima (piccola) ondata di infezioni e nella seconda ondata di maggior intensità. Questo esperimento ci ha restituito quello che è il vero dato sottostante all’adattamento virale: una guerra per chi lascia più discendenti tra un numero incredibile di individui diversi per diverse mutazioni.

Il campo di battaglia di questa guerra siamo noi, e i contendenti sono in realtà i piccoli genomi a Rna che determinano le proprietà di ogni singolo individuo virale. Il primo dato che è emerso dallo studio, come probabilmente ci si poteva aspettare, è che la ben nota mutazione D614G della proteina virale spike, la quale conferisce un vantaggio probabilmente in termini di infettività ai virus che la possiedono, è divenuta l’unica presente nella seconda ondata, caratterizzata dall’infezione di un numero di individui umani molto maggiore.

Ma questo è solo uno degli elementi emersi: molto più interessante è vedere come praticamente ognuno dei singoli genomi virali sequenziati presentasse mutazioni in tutte le proteine che compongono il virus, a testimoniare l’incessante prodursi di nuovi esperimenti evolutivi, che anche in pochi mesi possono alterare profondamente la struttura originaria del virus. A oggi, come confermano anche i dati sui 5.000 e passa pazienti di Houston presi in considerazione dallo studio, infettati da altrettanti virus diversi, per fortuna non si sono avuti mutanti che causino un decorso clinico peggiore di quello già conosciuto, ma sfortunatamente nemmeno uno migliore; non sono emersi anche perché nessuna mutazione, fatta salva la menzionata D614G, ha conferito alcun vantaggio particolare ai virus che la portavano.

Questo profluvio di dati texani, quindi, conferma quello che si ripete da tempo e che ormai solo pochi sembrano non volere capire: non è emerso nessun virus buono, ma solo una variante più infettiva, e possiamo anche ritenerci fortunati così, per il momento. Quando sono disponibili milioni o miliardi di individui ancora suscettibili, l’esperimento naturale di Houston dimostra ancora una volta le regole di Darwin: in assenza di un fattore che spinga il virus a diventare meno pericoloso, solo un caso fortunatissimo e quindi molto improbabile – quello che una mutazione benigna conferisca maggiori capacità replicative o infettive al virus – può fare diventare “più buono” il virus. Puntare su questo caso, come è ovvio, non è una grande idea; e difatti, finora nessuno ha vinto questa scommessa, né a Houston né altrove nel mondo.

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