(foto LaPresse)

cattivi scienziati

Conquistare l'immunità

Enrico Bucci

Gli anticorpi decrescono subito anche tra chi è stato sottoposto al vaccino sperimentale. Ma non disperiamo

Sono 1.008 i nuovi casi positivi al Covid-19, in calo rispetto al giorno precedente quando erano stati 1.458. Tuttavia, è in calo anche il numero dei tamponi processati, passati dai 72.143 di domenica ai 45.309 di ieri. Quattordici i decessi registrati, mentre aumentano i pazienti ricoverati in reparti ordinari (+80) e in terapia intensiva (+10). E’ormai sempre più chiaro che gli anticorpi contro il virus Sars-CoV-2, anche fra coloro che mostrano livelli elevati di anticorpi neutralizzanti alla guarigione o dopo che sia loro stato somministrato uno dei vaccini in sperimentazione, decrescono a livelli molto bassi o spariscono del tutto in poco tempo dal sangue dei pazienti – nella migliore delle ipotesi, in qualche mese. Non si tratta di un fatto particolarmente inatteso, considerando quanto avviene per altri coronavirus, ma a questo punto la domanda è: quale impatto ha questo dato rispetto all’utilità dei vaccini e alla possibilità di mantenere un’immunità di gregge nella popolazione? In breve, la risposta è la seguente: sarebbe bello che dopo essere stati esposti al virus o a un vaccino ci fosse un’immunità sterilizzante permanente, cioè la permanenza di anticorpi neutralizzanti a livelli alti nel sangue di tutti gli individui esposti. In realtà, questo non è strettamente necessario affinché un vaccino sia utile o perché si sia almeno parzialmente protetti dopo essere guariti dall’infezione del virus. (segue nell’inserto III) Il motivo risiede in due diverse caratteristiche della risposta immune: la formazione della memoria immunitaria e la presenza della risposta cellulare al virus, non basata sugli anticorpi. Per quel che riguarda il primo punto, va ricordato che – anche se gli anticorpi circolanti declinano rapidamente – dopo la guarigione o la vaccinazione potrebbero comunque essere presenti per lunghissimi periodi cellule della cosiddetta memoria B, vale a dire linfociti B che sono già “armati” per riconoscere il virus e che, in caso di reinfezione, reagiscono molto più rapidamente ed efficientemente nel produrre nuovi anticorpi. Uso il condizionale, perché al momento non disponiamo di dati solidi circa lo sviluppo della memoria immune di tipo B nei confronti del Sars-Cov-2.

 

Per quanto riguarda il secondo punto, sappiamo che sia il virus che i vaccini in sviluppo inducono tutti una robusta risposta dei linfociti T, cioè di quelle cellule in grado di riconoscere le cellule infettate dal virus e di distruggerle, come su queste pagine ho scritto in passato. Sappiamo inoltre che altri coronavirus, tra cui persino quelli del raffreddore, sono in grado di promuovere lo sviluppo della memoria di tipo T di lungo periodo, vale a dire di “lasciare in eredità” a chi si è infettato cellule T in grado di attivarsi molto rapidamente ed efficientemente in risposta a una reinfezione, ed è ragionevole pensare che lo stesso avvenga con i vaccini. Alla luce di queste considerazioni, è possibile immaginare che una parte sostanziale della popolazione che sarà vaccinata svilupperà comunque una risposta immune di periodo non breve, e sarà quindi protetta, anche se non mediante l’agognata immunità sterilizzante. Se quest’ultima dovesse comunque durare per almeno qualche mese, sarebbe possibile inoltre anche condurre campagne di vaccinazioni stagionali, come quelle per l’influenza, in caso il virus cominci esso stesso a mostrare andamento stagionale. Di certo, comunque, è più che mai urgente la ricerca di nuovi ed efficaci farmaci da affiancare alla profilassi vaccinale, su cui forse si sta investendo emotivamente e mediaticamente in maniera eccessiva.

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