Riconoscere i volti

Massimo Piattelli Palmarini

È una facoltà innata. Per la prima volta un'equipe di neuroscienziati italiani lo ha dimostrato. Lo studio 

Milano. Quanti volti umani può ciascuno di noi riconoscere e identificare? Pensiamo a familiari, parenti, amici, colleghi, tante persone famose. L’ordine di grandezza è di alcune migliaia. Il riconoscimento è praticamente immediato e, cosa curiosa, accurati esperimenti di laboratorio hanno mostrato che il brevissimo tempo che ci occorre per riconoscere un volto noto è sostanzialmente lo stesso di quello che ci occorre per decidere che un volto è per noi nuovo, cioè si tratta di una persona mai vista prima. Curioso, perché si sarebbe sospettato che la decisione di estraneità di un volto dovesse essere il risultato di un rapido esame di tutti i volti a noi noti e la conclusione che il volto che ora abbiamo di fronte non è nessuno di questi. Ma così non è. L’identificazione e la non-identificazione vanno di pari passo, quasi istantaneamente.

 

Da tempo si sapeva che questa speciale facoltà percettiva e cognitiva, radicalmente diversa dalla lenta e laboriosa costruzione di expertise equivalenti per altre forme (quadri, panorami, modelli di auto o moto e simili) ha precisi correlati neuronali. Alcuni neuroscienziati cognitivi (una minoranza) avevano suggerito che il riconoscimento dei volti fosse solo un esempio, appunto, di expertise, maturata nel tempo, fin da quando eravamo piccoli e tanto già ci interessava identificare i volti. Altri (una maggioranza) sostengono, invece, che si tratti di un modulo innato. Ne era seguito un dibattito scientifico, sulle pubblicazioni specializzate. Ebbene, da oggi, il dibattito cessa e i modularisti e innatisti vincono senza dubbio. In un lavoro che esce oggi (13 febbraio ndr) sui prestigiosi atti dell’Accademia Statunitense di Scienze (Proceedings of the National Academy of Sciences US – in breve PNAS), un gruppo di neuroscienziati italiani, del CIMEC (Centro Interdipartimentale Mente/Cervello, del’Università di Trento a Rovereto) e dell’Università di Padova, mostra che il riconoscimento dei volti è già presente poche ore dopo la nascita.

 

Chiedo al responsabile del gruppo di ricerca, professor Giorgio Vallortigara, di spiegarci l’essenza di questa importante scoperta. Mi dice: “Abbiamo registrato l’attività cerebrale di una popolazione di neonati sani tra 1 e 4 giorni di vita mentre osservavano dei volti stilizzati e altre immagini fisicamente equivalenti, presentati con una stimolazione lenta e periodica. Grazie a questo protocollo innovativo abbiamo misurato per la prima volta la risposta corticale alla percezione di volti in ogni neonato. Sorprendentemente, la base anatomica di tale risposta coinvolge in gran parte le stesse aree specializzate nell’elaborazione dei volti negli adulti. Questo risultato suggerisce che alla nascita la corteccia cerebrale sia molto più organizzata di quanto assunto in precedenza, e contenga già una via preferenziale all’elaborazione dei volti, permettendo ai neonati il rapido sviluppo dell’interazione sociale con chi si prende cura di loro”. Gli chiedo come questa scoperta cambi le carte in tavola di una diatriba che ha qualche anno di vita. “Era noto che i neonati, nonostante la loro ridottissima esperienza visiva, mostrano un orientamento preferenziale per le facce già pochi minuti dopo la nascita. La teoria ad oggi più popolare assumeva che la corteccia cerebrale dei neonati fosse troppo immatura e indifferenziata per avere un modulo corticale specializzato per i volti, e che questa preferenza fosse determinata da alcune strutture sottocorticali evolutivamente primitive. L’attivazione cerebrale associata alla preferenza per i volti nei neonati non era però mai stata misurata”.

 

Immancabile, la mia domanda se, interesse scientifico a parte, possano esserci applicazioni pratiche. Vallortigara risponde: “Una potenziale importante applicazione di questo risultato potrebbe riguardare lo studio dell’autismo. Una ricerca recente del mio laboratorio ha mostrato che i neonati con familiarità (alto rischio genetico) di autismo si orientano meno verso le facce rispetto ai neonati non a rischio. La risposta elettrofisiologica ai volti identificata in questo studio potrebbe perciò costituire un biomarker neurale per l’individuazione di indizi precoci dell’autismo”.  

 

In materia di riconoscimento dei volti, il modulo sottostante può essere colpito selettivamente, provocando un grave specifico difetto chiamato prosopoagnosia. Questi soggetti ci vedono perfettamente altrimenti, ma non possono riconoscere i volti, nemmeno dei familiari e dei parenti. La neuroscienziata cognitiva olandese Beatrice de Gelder, alcuni anni fa, ha pubblicato un risultato che ha dell’inverosimile. Esaminando a Tilburg una popolazione di prosopoagnosici, ha determinato che, senza rendersene conto, possono identificare benissimo le espressioni facciali (gioia, disgusto, ira, aggressività) dei volti che, si badi bene, non riescono a vedere come volti. Parrebbe impossibile, ma è proprio così. La spiegazione è che il modulo cerebrale per il riconoscimento delle espressioni dei volti è distinto da quello per il riconoscimento dei volti. Vicino a questo, ma distinto. Uno dei tanti, affascinanti paradossi della modularità della mente e del cervello.

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