Foto Unsplash

La salute mentale e la democrazia della cura

Sarantis Thanopulos 

Il benessere della mente non è il prodotto di un’adesione agli standard sociali, ma di una libertà personale di interpretare la propria posizione nel mondo. La soluzione dei problemi annessi consiste nel superamento delle cause scatenanti, non nel “raddrizzamento” del modo di sentire e di pensare dei giovani in difficoltà

Il campo della “salute mentale” è un campo minato dalla complessità delle cause della sofferenza, dalla difficoltà di realizzazione di un approccio necessariamente multidisciplinare e dalla resistenza a riconoscere che in nessun caso la cura possa essere ridotta allo schema della terapia medica. Le letture che riducono la complessità di un campo disagiato dell’esperienza umana a schemi prodotti da pregiudizi ideologici o da impulsi con cui si scaricano le emozioni del momento, aumentano la confusione.

 

Parlare di “devianza giovanile”, come ha fatto il partito della premier Giorgia Meloni, è improprio. Devianza rispetto a cosa, rispetto a quale canone? La salute mentale non è il prodotto di un’adesione agli standard sociali, ma di una libertà personale di interpretare la propria posizione nel mondo (il che implica anche lutto, dolore e fallimenti) in accordo o un disaccordo con le i “main stream” mentali, emotivi e comportamentali. Ciò è anche il senso della democrazia. I giovani sono necessariamente incoerenti e eccentrici rispetto all’ordine sociale. Così dispongono di uno spazio sperimentale che consente loro di entrare in modo personale nella società degli adulti e rinnovarne lo spirito e l’organizzazione. Il loro disagio è prodotto dalla restrizione del loro spazio sperimentale, che può avere cause psichiche sociali o microambientali. La cura consiste nel superamento di queste cause e non nel “raddrizzamento” del modo di sentire e di pensare dei giovani in difficoltà. 

 

L’indignazione e l’allarme che scattano tutte di volte che un “folle” commette omicidio (se si uccide non ne parla nessuno) sono ingiustificati: i “malati psichiatrici” non uccidono gli altri più di quanto non lo facciano i “normali”. Fa certo impressione la motivazione illogica dell’omicidio, ma farci dettare le nostre convinzioni dall’essere impressionati non è mai una cosa buona. Mentre si grida allo scandalo dei “malati” lasciati liberi a nuocere, si diffonde nella società la psicosi asintomatica (quasi mai oggetto di diagnosi psichiatrica), la moltitudine di cittadini considerati da tutti mentalmente sani, ma in realtà automi privi di profondità interiore, che improvvisamente esplodono e commettono i più catastrofici atti distruttivi (omicidi di massa, femminicidi, la maggior parte dei figlicidi). Il gridare al pericolo ha avuto come suo unico risultato un’intensificazione dell’atteggiamento repressivo/contenitivo della sofferenza mentale che ha danneggiato molto la cura vera e propria: l’elaborazione del dolore e la riappropriazione da parte del soggetto sofferente della propria cittadinanza nella società civile e politica.

 

È tempo che in tutti noi prevalga il buon senso scientifico e culturale. La sofferenza psichica grave richiede, come l’esperienza clinica e umana ci insegna (al netto di ogni tipo di presunzione ideologica), una tripartizione della cura: il contenimento dell’angoscia e della depressione che può essere fatto, senza alcuna contenzione fisica, con l’uso moderato e mirato di farmaci e la costruzione di reti di sostegno relazionale della persona in preda al dolore; la psicoterapia che consente di sedimentare il dolore (con importanti effetti contenitivi delle sue forme non molto acute) di elaborarlo e di significarlo, rendendolo condivisibile, vivibile e perfino istruttivo; il reinserimento culturale, politico e lavorativo nella comunità in cui si vive.

 

Demolire la legge 180 (un momento alto di unità nazionale) significa abbandonare i tre suoi capisaldi che sono espressione di civiltà e di democrazia, prima di ogni altra cosa:
- La centralità del legame della cura con la comunità di appartenenza;
- Il coinvolgimento delle persone sofferenti e dei loro familiari nel processo del recupero psicosociale;
- l’attenzione alla qualità della vita (affettiva, erotica, culturale, politica, lavorativa), nonostante e al di là della persistenza di un malessere destabilizzante (irriducibile in una sua parte ad ogni progetto di guarigione/normalizzazione).

 

Largamente disapplicata nei suoi principi, la 180 è il punto saldo da cui bisogna iniziare la ricostruzione del sistema della salute mentale. Andare oltre non significa demolirla, ma migliorare  il suo impianto riformatore, ridarle forza propulsiva. Soprattutto riequilibrarla restituendo centralità alla psicoterapia (quasi scomparsa da Servizi con grave danno della cura nel suo insieme). Bisognerebbe ripartire  dall’importanza di una cultura complessiva della cura: l’attenzione ai diritti politici, civili e sociali, ma anche alla libertà e alla creatività dell’espressione soggettiva, ai bisogni materiali, ma anche ai desideri e agli affetti, all’esigenza di un inserimento vero, e non formale, all’interno della propria comunità, ma anche alla richiesta di lenimento del dolore e, soprattutto, di una sua elaborazione. Un anno fa è stato lanciato, da diverse forze riformatrici, il Manifesto della Salute Mentale che ha messo al centro del dibattito questi punti. Ha raccolto molte significative adesioni e oggi si propone come casa comune per tutti coloro che hanno nel loro cuore la salute mentale dei cittadini. Attenti a non alzare un muro di Berlino tra la sofferenza manifesta, lacerante dei singoli individui e la sofferenza grigia, sorda di larghissimi strati della società.

  

Sarantis Thanopulos 
Presidente della Società Psicoanalitica Italiana 

Di più su questi argomenti: