Salute mentale: aiutare le persone nel tempo prima obbligarle alla cura

Franco Rotelli

Esistono luoghi in Italia in cui i servizi pubblici si sono organizzati per offrire una risposta: una presa in carico continuativa “non residenziale” delle persone e la messa in rete di risorse positive importanti

Pubblichiamo una lettere in risposta all’intervento di Michele Cerquetti (“Si può parlare di salute mentale senza essere schiavi della retorica?”) pubblicato sul Foglio dell’11 ottobre. L’autore di questa prima lettera è Franco Rotelli, uno psichiatra che ha lavorato per anni con Franco Basaglia, promotore della riforma psichiatrica in Italia e della legge che porta il suo nome, e dopo di lui ha assunto nel 1980 la direzione dei servizi psichiatrici di Trieste. 


 

Al direttore - Abbiamo letto il testo di Michele Cerquetti, pubblicato sul suo giornale in occasione della Giornata mondiale della salute mentale. Non possiamo che associarci a quella narrazione: le cose vanno così. La lettera da un lato fotografa e denuncia l’inadeguatezza delle risposte istituzionali, culturali e sociali al sempre più vasto e grave malstare di tante persone, soprattutto le più giovani, dall’altro richiede che si apra una discussione molto più vasta e profonda su un tema di drammatica complessità. A quelle questioni molto spesso si offrono risposte occasionali, estemporanee e riduzioniste che quasi sempre invocano il ritorno a una qualche forma di custodia. Alla fine poi troppo spesso il tema riferito a queste realtà è il “dove lo/la metto” piuttosto del “che cosa faccio con lui/lei”. Ma esistono luoghi in Italia in cui i servizi pubblici si sono organizzati per offrire una risposta: una presa in carico continuativa “non residenziale” delle persone e la messa in rete di risorse positive importanti. Queste realtà sono ancora troppo poche e invece di essere potenziate e sostenute vengono depotenziate e accerchiate da visioni squisitamente medicali e/o penali. Esistono in Italia servizi territoriali aperti 24 ore su 24, ogni giorno. Si tratta di servizi a bassa soglia che accolgono le persone che hanno bisogno di un aiuto, di cure.

Chiudendo il manicomio a Trieste, abbiamo aperto contestualmente centri di salute mentale, il più possibile simili a luoghi normali di vita, per prenderci cura delle persone, e non per metterle da qualche parte: sono presidi non ambulatoriali sul territorio, aperti 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno. Sono spazi in cui accogliere chi sta male, anche alla domenica e in tutte le feste comandate. Spazi ben diversi dal Pronto soccorso e del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc), di cui si parla nella lettera, che spesso è l’unica (e quindi miserabile) risposta a chi sta male. Esistono poi in giro per l’Italia altri buoni servizi, e pure forme associative coraggiosamente costruite dai soggetti interessati, da chi ha l’esperienza del grave malstare e/o dei loro famigliari, o da gruppi solidali.


Le carenze della politica potevano già essere immaginate quando la legge 180 venne inopinatamente subito chiamata legge Basaglia. Era firmata da Giulio Andreotti e da Tina Anselmi e proposta dall’onorevole Bruno Orsini. Nessun politico mise il nome su quella legge. Né allora né poi. Giacciono inutilmente in Parlamento proposte di applicazione della legge 180 che disegnano un’ingegneria dei servizi che potrebbe offrire le basi per una risposta civile a questioni così drammatiche – una risposta ben lontana dall’inerzia dell’esistente o dal ritorno al manicomio.


Questa famosa “agenda sociale” di cui molti parlano in cosa consiste? Solo una rivisitazione profonda dei sistemi di welfare locale può configurare risposte adeguate. Non è mai una risposta adeguata quella riduttiva medicale, né lo è quella sanzionatoria, e la gabbia delle diagnosi è attrezzo consunto. Per quel che le riguarda le carenze delle psichiatrie e delle psicologie, prese a sé stanti, risultano dimostrate dai loro stessi risultati. Quella che noi invochiamo come “impresa sociale” coincide invece con una presenza rilevante di servizi territoriali, interdisciplinari, a forte integrazione sociosanitaria; con lo sviluppo di forme importanti di cooperazione sociale e il sostegno di strumenti associativi tra i soggetti coinvolti, familiari e cittadini attenti alla dimensione sociale della questione, e impiegando le risorse informali di quell’enorme giacimento minerario non utilizzato che è la comunità.


Ripetiamo da decenni che la risposta dei servizi pubblici deve essere una risposta territoriale, deve essere  presenza di servizi continuativa e capillare sul territorio. I servizi che funzionano sono servizi vicini alle persone, sono servizi accessibili e soprattutto sono servizi aperti. Non è ben chiaro se le risorse messe a disposizione dal pubblico siano  sufficienti o meno: perché quello che è chiaro è che comunque sono assolutamente mal collocate, tra cliniche private, posti letto ospedalieri, convenzioni con situazioni residenziali neo-manicomiali, lasciando intatti i problemi che la lettera del signor Cerquetti denuncia.

Se ci abituiamo a considerare utopica l’azione degli enti locali per intervenire utilmente sulle condizioni sociali e di vita, in particolare nei quartieri più complicati ma più in generale ovunque nelle nostre città, se consideriamo utopistico immaginare un uso delle scuole con iniziative capaci di coinvolgere al di là delle ore di lezione e se consideriamo utopistici servizi sanitari capaci di sviluppare buone pratiche (di cui si sa tutto) dovremo certamente continuare a ricorrere a interventi sanzionatori, a chiamare impropriamente in causa la magistratura, a parlare di contenzioni e mai di sicurezza sociale.


Quante risorse esistono nel territorio che non vengono utilizzate! (società sportive, culturali, associative, religiose ecc). Una comunità sbriciolata in cui ognuno si chiude nella propria isola e gli specialisti nelle proprie competenze, non potrà mai dare le risposte che la lettera invoca. E’ davvero utopistico sostenere che bisogna mettere insieme le risorse istituzionali e quelle informali di ogni comunità per poterne affrontare i problemi? E non dovrebbe essere questo il compito della politica?

La pericolosità è sempre frutto dell’abbandono ed è la conseguenza di una catena di abbandoni. Il ricorso al Tso come obbligo della cura, comunque possibile, e a volte dolorosamente necessario, diventa molto più frequentemente non necessario quando le persone vengono davvero aiutate nel tempo. E’ altrettanto dolorosamente vero il fatto che i professionisti (psichiatri, psicologi, ecc.) messi spesso in condizioni del tutto inadeguate, non si ribellino e non denuncino sistematicamente le carenze dei servizi nei quali sono incardinati. Siamo capaci di uscire da quegli specialismi, dalla separazione delle competenze? Siamo capaci di scegliere, tra regole e bisogni,  la risposta ai secondi? 


Ma poi: questi giovani perché stanno male o perché fanno abuso, e non solo uso, di sostanze? Tutto quello che assomiglia a un sostegno pubblico a un’aggregazione giovanile viene visto con sospetto e scoraggiato. Il mondo giovanile viene sommerso di regole insensate e quasi mai incoraggiato a esprimere una propria specificità, e le proprie, giuste, anomalie. Ci sono delle paure collettive che investono soprattutto i più giovani e che dovrebbero essere affrontate dal mondo della politica: gli diamo invece una guerra alle porte, una minaccia nucleare, un pianeta in condizioni sempre più critiche, una precarietà sempre più diffusa, una difficoltà a costruirsi una propria autonomia, poca speranza verso la conquista di nuovi diritti civili. E il bonus psicologi.

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