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cattivi scienziati

L'atteso e poco auspicabile ritorno alla “normalità” pre pandemia

Enrico Bucci

Se pretendiamo che questa pandemia sia l’ultima stiamo inseguendo una chimera. I nostri comportamenti di massa del periodo precedente a Covid non erano privi di rischi. Anzi, hanno contribuito al disastro sanitario che abbiamo vissuto

La stanchezza prodotta non solo dal perdurare della pandemia, ma anche dalla prolungata sottrazione a singhiozzo di numerose forme di socialità, dalla compressione economica, dalla burocratizzazione di attività fino a due anni fa completamente libere, da un dibattito pubblico a volume troppo alto, inquinato da false notizie straordinarie e fissato inesorabilmente su un singolo tema, solo per accennare ad alcune cause, è una conseguenza naturale di uno stress prolungato molto oltre quanto saremmo disposti a tollerare. In queste condizioni, emerge un desiderio profondo, che si condensa in una domanda che riecheggia sempre più spesso: quando torneremo alla normalità?

    
Il problema di domande come questa è che sono apparentemente semplici e chiare, ma nella realtà mal definite. La normalità è infatti una pura idea soggettiva, per di più cangiante a seconda del nostro stato d’animo e dell’età che abbiamo.

      
Per esempio, è perfettamente legittima e condivisibile la domanda di tornare a una vita sociale ricca, alla libertà di movimento, agli eventi culturali e mondani cui siamo stati abituati fino al 2019; e di questo parleremo prossimamente. Prima di farlo, però, vorrei che ci fermassimo a riflettere anche su un punto: e cioè come la “normalità” del passato non tanto da un punto di vista degli scambi sociali, ma in termini dei comportamenti di massa che abbiamo adottato, ha prodotto il disastro sanitario che abbiamo vissuto, e come potrebbe produrre la sua reiterazione se non cominciamo a cambiare qualcosa? Noi preferiamo immaginare di aver semplicemente deviato da uno stato “naturale” ove i nostri comportamenti – viaggiare, per esempio, o scambiare merci a ritmi sostenuti con ogni angolo del pianeta, o comprimere l’habitat delle specie selvatiche – siano privi di rischi e che, a qualunque costo, se le cose non torneranno indietro spontaneamente, bisognerà farlo con un atto di volontà collettiva che cancelli dalla vista ciò che è sgradevole, confinando il costo sanitario a ipotetici “altri” sacrificabili (i più anziani, i più malati eccetera) e per il resto tornando spensieratamente alla nostra condizione di partenza, virus o non virus. 

  
Ora, questo confinamento ad altri del danno e dei costi di certe scelte non è nuovo: la nostra perduta “normalità” era quella che permetteva a noi di sorseggiare Spritz o un buon vino, mentre la maggior parte degli individui del pianeta, ovviamente fuori dalla nostra vista, si trovava e si trova in un’altra normalità, cioè quella loro deputata da noi: “per loro è normale” vivere con malattie endemiche, “da loro è normale” la siccità o la carestia, “fra loro è normale” la violenza e la povertà. L’importante è che il nostro “normale” sia ben separato da ciò che causa, normalmente, a tutti gli altri o a qualunque cosa non sia immediatamente in contrasto con esso, compresi il sempre più rapido deterioramento climatico, una nuova estinzione biologica su larga scala, il depauperamento delle risorse naturali, lo sfruttamento di chi vive in altre nazioni e così via, di normale conseguenza in normale conseguenza purché possiamo spensieratamente mantenere il nostro poco sostenibile stile di vita.

  
Né si tratta di ragionamenti nuovi: Pasolini, per esempio, associava questo tipo di normalità cieca e irresponsabile al fascismo, e nel settembre del 1962 scriveva su Vie Nuove che il fascismo si poteva descrivere “come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società”. Quel fondo brutalmente egoista che io vedo ricomparire, nei commenti di individui rampanti pronti a sacrificare la vita altrui, e precisamente quella di soggetti fragili per patologia o età, con un ritorno agli stessi comportamenti, persino in presenza non solo di morti, ma di ospedali pieni e scuole svuotate.

  
Ora, si dà il caso che nelle condizioni di estrema connessione tra miliardi di esseri umani e animali di allevamento in cui abbiamo costruito la nostra dorata normalità occidentale, sia anche normale – e guarda caso accuratamente predetto – che patogeni pericolosi si diffondano a velocità elevatissima, causando epidemie vegetali (Xylella), animali (peste suina) e umane (Sars-CoV-2).

  
Sarebbe forse ora di rendersi conto che se per normalità intendiamo il ritorno a tempo indeterminato alle stesse condizioni che producono le pandemie (o il cambiamento climatico, o le guerre, o le migrazioni, eccetera), e pretendiamo che questa pandemia sia l’ultima, allora stiamo inseguendo una chimera: non si tratta di essere moralisti, ma solo di riconoscere che non possiamo ignorare le conseguenze planetarie del nostro modo di agire. Spero che il lettore vorrà perdonarmi se ho inteso ricordarlo a tutti, prima di passare prossimamente a scrivere di ciò che dobbiamo invece obbligatoriamente recuperare: la nostra socialità, in tutte le sue forme.