il foglio salute

Serafino, curato anche con gli anticorpi monoclonali

Giulia Catricalà

“Una grandissima risorsa per i pazienti a rischio nelle prime fasi della malattia”, dice il dott. Curiale (Spallanzani)

Chiamato dagli amici “Nonno Highlander” il 95enne romano Serafino Ciancola, ha dato prova di meritare il suo appellativo sfidando il tempo ma soprattutto le circostanze avverse in cui si è trovato. Serafino è risultato positivo al Covid-19 il 21 aprile, e dopo un grave peggioramento delle sue condizioni, il 24 aprile, è stato ricoverato all’ospedale Sant’ Eugenio di Roma e trasferito d’urgenza nella notte per polmonite acuta bilaterale e insufficienza respiratoria allo Spallanzani, dove ha ricevuto cure a base di cortisone e un’infusione di anticorpi monoclonali. Nella prima divisione del quartier generale anti-Covid19 d’Italia nonno Highlander è stato seguito ogni secondo dai medici e dagli infermieri, per uscire dalla struttura “sulle proprie gambe” il 12 maggio. Gli anticorpi monoclonali in Italia sono autorizzati in via temporanea per il trattamento del Covid-19 e vengono utilizzati in numerosi centri su pazienti fragili e con comorbidità come Serafino.  Abbiamo chiesto allo science communicator dello Spallanzani Salvatore Curiale di raccontarci qualcosa in più.

 

 

Dottor Curiale, in quali casi vengono utilizzati gli anticorpi monoclonali e quanto sono efficaci?

I monoclonali rappresentano una realtà nata in altri ambiti, soprattutto in ambito oncologico dove per la cura dei pazienti si utilizzavano gli anticorpi ottenuti tramite prelievo, potenziati e ritrasfusi. Nel caso dell’epidemia questa tecnica è risultata utile perché si potevano estrarre anticorpi più potenti dal plasma dei pazienti che avevano superato l’infezione, e tramite un processo di “industrializzazione” sono diventati una medicina. I monoclonali forniscono una dose di anticorpi molto più concentrata ed efficace rispetto a ciò che veniva fatto con il famoso plasma, che rappresenta una tecnica più empirica. Sono una grandissima risorsa per i pazienti a rischio nelle prime fasi della malattia. Questa terapia, inoltre, può essere utilizzata come forma di immunizzazione passiva, cioè come forma di vaccino per quei pazienti che non sviluppano anticorpi; ad esempio i malati oncologici in corso di chemio. In questo caso i monoclonali si forniscono con una trasfusione e in genere durano sei mesi.

 

Quali criticità presentano questi anticorpi?

Innanzitutto vanno somministrati il prima possibile, perché la forma grave della malattia a un certo punto prescinde dalla presenza del virus, che, in quei casi in cui arriva nel polmone, innesca una reazione infiammatoria spropositata. L’infiammazione, una volta scatenata, è autoalimentante, anche se il virus è stato neutralizzato. Andrebbero quindi somministrati nelle primissime fasi della malattia, ma al momento possono essere forniti solo con una trasfusione endovenosa, in ospedale e ogni trattamento costa tra i mille e i tremila euro.

Per questo motivo si danno a pazienti che sono a forte rischio di sviluppare complicazioni e forme gravi della malattia; ci sono degli indicatori predittivi come l’età o la presenza di più patologie. Un paziente di 95 anni viene curato con i monoclonali per evitare che entri in terapia intensiva. Il cortisone, ad oggi, a livello di terapie contro il Covid19, è il salvavita più importante, ma se viene dato nella fase iniziale dell’infezione può agevolarla perché deprime la risposta immunitaria, invece, al contrario dei monoclonali, se utilizzato quando si è già innescata l’infiammazione, può aiutare a bloccare la cascata infiammatoria.

 

Funzionano sulle numerose varianti di cui sentiamo parlare?

L’altra criticità degli anticorpi monoclonali, che riguarda in misura minore anche i vaccini, è data dal fatto che sono stati tarati sulla proteina Spike del virus isolata a Wuhan nel gennaio 2020. Il virus ormai è mutato, leggiamo sempre delle numerose varianti, e questa terapia può non neutralizzare efficacemente questi virus che presentano delle mutazioni proprio nella proteina spike, che è quella “presa di mira” sia dai vaccini che dai monoclonali.

 

 

Mentre i vaccini sollecitano la produzione degli anticorpi ma anche la risposta cellulare, sollecitano cioè i linfociti che conservano una memoria dell’infezione e quindi sono in grado di produrre anticorpi che comunque danno un certo grado di protezione, i monoclonali non hanno questa “virtù”. Quindi bisogna costantemente sorvegliare che gli anticorpi monoclonali proteggano contro il virus, perché, per assurdo, se l’anticorpo non neutralizza il virus, o lo neutralizza in maniera imperfetta, può favorire lo sviluppo di varianti. Perché durante la fase di replicazione del virus nelle cellule possono esserci degli errori, che maggior parte dei casi si esauriscono e non hanno conseguenze; ma se l’errore conferisce al virus dei vantaggi di tipo evolutivo (per esempio si trasmette di più o riesce a evadere le cure) il virus prevale sugli altri. Queste sono le criticità dei monoclonali ma è indubbio che rappresentino una preziosa risorsa nella lotta al Covid-19. 

 

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