Sospendere i brevetti per i vaccini è una scelta contro l'Europa

Giacinto Della Cananea

La fine dei diritti esclusivi può scoraggiare gli investimenti in ricerca. Ecco perché la scelta presa da Joe Biden, anche se è a fin di bene, rischia di nuocere

Mercoledì scorso, quando Katharine Tai, responsabile per il commercio estero nel governo Biden, ha reso noto che gli USA sono pronti a discutere nella sede della WTO la proposta di sospendere i brevetti dei vaccini anti-Covid, vi sono stati subito molti consensi, oltre alla prevedibile opposizione delle aziende farmaceutiche. Per comprendere le prospettive di successo di questa proposta, è importante fare chiarezza su tre punti: non si tratta d’una revoca dei brevetti; il sostegno degli USA è cruciale, ma non è sufficiente; è una decisione che presenta vantaggi, ma non è priva di rischi. 

 

 

Innanzitutto, non si tratta d’una revoca dei brevetti concernenti i vaccini, bensì d’una sospensione. La proposta che è stata presentata dall’India e dal Sudafrica il 2 ottobre dell’anno scorso all’organo collegiale competente per gli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale si basa sul timore che i vaccini non siano disponibili “prontamente, in quantità sufficienti e a prezzi accessibili”, così da poter soddisfare la domanda globale. Di qui la richiesta di raccomandare al Consiglio generale della WTO di sospendere l’applicazione di alcune disposizioni relative proprio alla proprietà intellettuale. La sospensione avrebbe effetto per un periodo di tempo prestabilito, prevedibilmente alcuni anni, finché la maggioranza della popolazione mondiale abbia raggiunto l’immunità al virus. Non è, però, una decisione che possa essere da un pur ampia maggioranza. Gli accordi che hanno istituito la WTO nel 1994 hanno tenuto ferma la necessità del consenso generale. Dunque, né l’esistenza di un buon numero di Stati favorevole alla proposta di sospendere i brevetti relativi ai vaccini, cui si aggiunge la mancata opposizione di altri Stati, né l’eventuale consenso degli USA garantiscono che la proposta verrà adottata se, per esempio, l’UE si opporrà, come finora ha detto di voler fare, ritenendo prioritari l’eliminazione delle barriere all’esportazione e il miglioramento delle catene di distribuzione dei vaccini. 

 


A questo ostacolo di natura procedurale se ne aggiunge uno di natura sostanziale. Da molti anni, vi sono state sollecitazioni – d’impronta sia liberale, sia collettivista – alla lotta contro la proprietà intellettuale. Esse sono state rivolte soprattutto alla grande industria farmaceutica: per la sua struttura oligopolistica e per il concreto pericolo che numerosi paesi non abbiano accesso a farmaci di primaria importanza. In occasione della pandemia, le sollecitazioni si sono fatte più intense, per via delle enormi difficoltà incontrate da paesi come l’India, dove pure i vaccini sono prodotti. Tuttavia, malgrado i buoni intenti della proposta di sospendere i brevetti, la limitazione dei diritti esclusivi di cui le imprese farmaceutiche godono e il raggiungimento dell’immunità al virus per la maggior parte della popolazione mondiale non coincidono: la prima può negare il secondo, specie se viene meno l’incentivo a investire nella ricerca, a sperimentare nuovi vaccini per fronteggiare le varianti del virus. Il rischio, come Mandeville segnalò già nel Settecento, nella favola delle api, è che una misura volta al bene finisca per nuocere. Ci si può chiedere, allora, se non sia meglio collocare la possibilità d’una sospensione dei brevetti all’interno d’una strategia politica globale diretta a incoraggiare la stipulazione di accordi tra i paesi più bisognosi e i produttori che non sono tenuti ad acconsentirvi, che fanno di tutto per sottrarvisi. Non è, in fondo, la logica della regolazione pubblica?

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