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La fretta poco trasparente di Londra e i rischi del nazionalismo vaccinale

Enrico Bucci

Nei comunicati rilasciati sia dall’azienda sia dal governo inglese manca una prima fondamentale informazione: quella sull’efficacia

E così, il terzo vaccino contro Covid-19 ha ricevuto una valutazione positiva da parte di una agenzia di un paese occidentale. Si tratta del vaccino di Oxford/AstraZeneca, e detta così sembra (ed è) senza dubbio un’ottima notizia.

  

Tuttavia, visti i precedenti “incidenti di percorso” nello sviluppo di questo vaccino – dall’errore metodologico nei trial all’annuncio di un’efficacia relativamente bassa rispetto agli altri vaccini in fase avanzata sviluppo, fino all’annuncio di un misterioso tentativo di sperimentazione “in combinazione” con il vaccino russo Sputnik V – vi sarebbe abbastanza per cercare di approfondire un po’ di più questa storia. Se si aggiunge che meno di 24 ore prima della sua approvazione da parte della Mhra inglese, l’Ema – l’agenzia per il farmaco europea – aveva rilasciato un comunicato in cui specificava che i dati fin qui forniti non erano sufficienti per l’approvazione europea, che non dovrebbe arrivare nemmeno a gennaio prossimo, allora è chiaro che qualche approfondimento è necessario.

  

Cominciamo dalla discrepanza fra i tempi di approvazione nel Regno Unito e quelli in Europa: da un punto di vista formale è presto spiegata, dato che l’azienda non ha presentato ancora ad Ema nessuna formale richiesta di approvazione. A quanto si apprende, il 24 dicembre sono stati presentati ulteriori dati, i quali però, se dobbiamo dar retta alle ultime dichiarazioni Ema, non sono sufficienti per un’approvazione, a maggior ragione se nemmeno è arrivata una richiesta formale in tal senso. Tuttavia, a parte l’aspetto formale inerente alla domanda ancora non depositata in Ema, osservando che un’azienda inglese ha presentato per ora solo all’ente regolatore inglese la sua domanda, la cui approvazione è stata trionfalmente annunciata ieri dal governo inglese come “un momento per celebrare l’innovazione britannica”, si ha la sgradevole sensazione di quel “nazionalismo vaccinale” che è uno dei più pericolosi prodotti della politica al tempo di Covid-19.

 

Anche volendo mettere da parte questi aspetti, in realtà bisognerebbe cominciare a chiedersi cosa sia stato in realtà approvato da Mhra, prima di lanciarsi in considerazioni avulse dal merito dell’informazione disponibile.

 

Sappiamo che la “approvazione per uso di emergenza” comporta la somministrazione di una doppia dose intera di vaccino, con la seconda dose da somministrarsi in una finestra di tempo compresa fra 4 e 12 settimane dopo la prima dose. Nei comunicati rilasciati sia dall’azienda che dal governo inglese, tuttavia, manca una prima fondamentale informazione: quella sull’efficacia. Se stiamo a quanto pubblicato su The Lancet, la posologia prevista avrebbe un’efficacia del 62 per cento nel prevenire le infezioni con sintomi. E’ chiaro, tuttavia, che il regolatore deve aver ottenuto nuove informazioni, dato che, basandosi evidentemente su dati non pubblicati, il prof. Pollard, a capo del Joint Committee on Vaccination and Immunisation (Jcvi) ha dichiarato che una singola dose del vaccino ha un’efficacia del 70 per cento in un periodo di osservazione compreso fra 22 giorni e 12 settimane dalla somministrazione. A questo punto, è chiaro che ci si devono porre alcune domande: quanto è davvero efficace questo vaccino? E quanto funziona, per esempio, per gli anziani? E come mai i dati pubblicati, che indicherebbero un’efficacia al 62 per cento, sono oggi superati dai dati ancora non pubblici, quali quelli per l’efficacia della prima dose al 70 per cento o quelli ancora più misteriosi che abbiamo recentemente appreso dal ceo dell’azienda, che ha parlato di efficacia al 95 per cento?

  

Si tenga presente che a questo punto la disponibilità di dati come questi nel pubblico dominio è fondamentale e non derogabile; non basta più cioè solo sapere che una certa agenzia ha approvato un vaccino, nel momento che diversi vaccini approvati e in arrivo sono dichiarati avere efficacia diversa.

  

Se, per esempio, il vaccino di AstraZeneca dovesse avere un’efficacia poniamo al 70 per cento, come si stabilirà chi dovrà ricevere questo rispetto a quello della Pfizer o di Moderna, che ha un’efficacia dichiarata intorno al 95 per cento? A chi, cioè, sarà chiesto di correre un rischio maggiore, e come sarà calcolato il rischio? Per fare due conti facilissimi, considerando solo il rischio di mortalità, che ad oggi in Italia è di 1,2 per cento per chi ha meno di 50 anni, se il 30 per cento dei vaccinati con il vaccino di Astra Zeneca fosse comunque esposto all’infezione, il rischio massimo di morte per i soggetti di questa età sarebbe inferiore allo 0,4 per cento (in realtà molto minore, perché non tutti si infettano). Questi, dunque, potrebbero essere i candidati per usare un vaccino meno efficace, ma di più larga disponibilità; mentre alle categorie più esposte o più fragili andrebbero riservati i vaccini che sembrano offrire maggiore protezione. 

  

Senza tuttavia informazioni trasparenti e pubbliche sulla reale efficacia di ciascun vaccino, come faremo a stabilire chi può riceverne uno piuttosto che un altro, senza correre più rischi del dovuto di ammalarsi comunque di Covid-19?

  

Per questi e per altri motivi, altrettanto importanti, è francamente comprensibile e rassicurante che Ema abbia appena dichiarato di voler richiedere ulteriori chiarimenti all’azienda, senza lasciarsi influenzare e nella sicurezza che quell’agenzia, contrariamente a Mhra, ha sempre messo a disposizione per esteso e in dettaglio tutti i dati su cui basa le proprie valutazioni.

 

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