Tre turisti a Piazza San Marco, Venezia (Foto LaPresse)

Euristica del contagio, ovvero il panico per un colpo di tosse sul bus

Gilberto Corbellini

La politica non si cura di quello che sappiamo sulle basi irrazionali dei nostri comportamenti, e il paese ha perso la bussola

Virologi o epidemiologi con ruoli accademici o istituzionali che si contraddicono e insultano tra loro, intellettuali e giornalisti che intonano il dies ire presagendo (per l’ennesima volta) l’Apocalisse della modernità, un governo nazionale e governi locali che annaspano, bloccano un intero paese e ingigantiscono una crisi che dovrebbe essere compito non della Protezione civile ma dai tecnici dell’Istituto superiore della sanità gestire, etc. Non è un bello spettacolo ma è nondimeno la fotografia di un paese che ha perso la bussola.

  

Se fossimo cittadini statunitensi, ascolteremmo una sola fonte medico-scientifica, quella dei Centers for Disease Control. Come la storia e i fatti insegnano che si dovrebbe fare. A creare confusione ci pensano già i mentecatti che smanettano dietro ai computer. Non è possibile che nel 2020, in una delle economie più grandi del Pianeta, non si sia in grado di evitare che degeneri la comunicazione su un tema che scatena emozioni sociali incontrollabili. Peraltro senza che vi siano al momento motivi seri per essere spaventati.

 

 

Errori ne sono stati fatti e se ne stanno facendo, ma ciò di cui ci sarebbe da preoccuparsi è contenere gli effetti ai quali può portare quella che gli psicologi cognitivi chiamano euristica del contagio. Si tratta di un insieme di strategie per rispondere individualmente o in gruppi a situazioni dove si pensa che oggetti o persone siano contaminati e, siccome direttamente non si può stabilire se sia vero o meno, si procede con reazioni di generalizzazione e panico verso tutte le situazioni che si teme siano portatrici del rischio.

 

Noi abbiamo capito solo centocinquanta anni fa che le malattie infettive sono trasmesse da microrganismi. Ma con infezioni abbiamo avuto a che fare da sempre. Come ci difendevamo fino a quel momento? Verosimilmente usando una sorta di pre-adattamento, nel senso che abbiamo molto accentuata l’emozione del disgusto, che ci porta a evitare cibi avariati o tossici, di cui abbiamo avuto esperienza. Questa emozione veniva usata anche motivare a evitare oggetti o persone che potevano trasferire malattie, per esempio cadaveri o individui malati, per cui si è selezionata l’intuizione di un contagio negativo associato a persone malate o oggetti che sono stati in contatto con esse. Le persone o gli oggetti contaminati ci provocano reazioni che erano benefiche per la salute e le nostre relazioni sociali, e che hanno assicurato la sopravvivenza della nostra specie. Oggi non servirebbero, ma il nostro cervello non è cambiato e se non riusciamo a controllarci, ecco che qualunque persona tossisca, o un cinese che per noi è associato all’origine dell’epidemia, può scatenare una risposta irrazionale e incontrollabile.

 

 

L’euristica del contagio, che nei bambini comincia a manifestarsi fra 3 e 5 anni, porta a evitare il contatto con persone o oggetti visti come “contaminati”, non solo da malattie ma anche per avere ricevuto un “mana” cattivo da qualcuno con cui erano stati precedentemente in contatto. Di fronte a tali situazioni quello che vediamo non lo riteniamo fedele alla realtà: per esempio tendiamo a considerare il cibo che ha toccato il suolo contaminato dallo sporco e quindi non più commestibile anche se non vi sono evidenze, oppure riteniamo che una persona che ha toccato un malato abbia la probabilità di portare la malattia (indipendentemente dall’effettiva contagiosità del malattia e del malato).

 

Del resto se proponiamo a qualcuno una bevanda contenente uno scarafaggio, questi rifiuterà di berla per il disgusto, che lo protegge dal rischio di avvelenarsi. Il rifiuto persisterà anche se la bevanda è stata sterilizzata, perché la regola empirica è di evitare il contatto con un liquido con il quale è stato a contatto lo scarafaggio. Intuitivamente o irrazionalmente si crede che le proprietà dannose dello scarafaggio passino ancora nella bevanda, anche se razionalmente si sa che con la sterilizzazione non esiste più minaccia fisica per la salute. Insomma, di fronte alla minaccia del contagio non c’è ragione che tenta e si attivano risposte irrazionali.

 

Esistono fior di studi i quali dimostrano che le intuizioni alla base dell’euristica del contagio non sono presenti solo nelle società tradizionali, ma anche in quelle occidentali e tra persone colte, dove alimenta soprattutto il ragionamento di evitamento di alimenti potenzialmente dannosi per proteggere la salute, ma anche la protezione dal trasferimento di malattie tra umani: evitare di toccare una persona malata “contaminata” per paura di ammalarsi.

 

 

Il paura del contagio riesce anche a slatentizzare gli impulsi razzisti. Il razzismo esiste perché noi tendiamo ad attribuire a persone che non fanno parte del nostro gruppo, tratti che solo loro avrebbero. Tratti solitamente negativi. Forse questo modo di categorizzare schematicamente ed erroneamente gli estranei si è selezionato per proteggere i nostri antenati quando incontravano bande di sconosciuti, che potevano rappresentare un rischio per la sopravvivenza e la salute: gli stranieri con i quali si incontravano i nostri antenati potevano essere aggressivi, cercare di rubare le donne ma soprattutto portare malattie. Infatti, tutti i leader populisti e sovranisti usano le malattie che arrivano da fuori o che sembrano fuori controllo per inviare messaggi che attizzano gli istinti umani più belluini.

 

Oggi sappiamo moltissimo sulle basi irrazionali dei nostri comportamenti, che si stanno manifestando anche di fronte a una modesta epidemia. I politici dei secoli scorsi auspicavano che le scienze naturali aiutassero a capire il comportamento sociale umano per prendere decisioni migliori. Oggi le scienze neurocognitive hanno in parte raggiunto quella capacità. Ma sembra inutile.

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