Agostino Traldi

L'uomo che curava l'emofilia

Daniele Puggelli

Storia magnifica ed esemplare (di questi tempi) del professor Agostino Traldi, innovatore nelle cure e paladino delle trasfusioni sicure. Narrata da un suo paziente

In un ricovero ortopedico ho avuto un vicino di letto molto più giovane e molto più esperto di me. Una sera mi ha detto che i suoi problemi avevano a che fare con una malattia che si chiama emofilia. Gli dissi che più o meno la conoscevo, e che avevo avuto un amico morto precocemente a Parigi per una trasfusione di sangue infetto. Mi colpì la sua reazione. Restò in silenzio con la testa china. Poi mi disse che era ancora un’emozione per lui scoprire che si trattasse l’emofilia con naturalezza. Imparai molte cose. Imparai il nome di un medico, un immunoematologo, Agostino Traldi. Non lo avevo sentito nominare, eppure moltissime persone lo salutarono, quando morì – nel 2017, a 89 anni – come l’uomo che aveva salvato la loro vita. Quando tornammo a casa il mio vicino promise che mi avrebbe raccontato la sua storia, è questa (Adriano Sofri).

  


 

All’età di 8 anni, a causa di una emorragia al muscolo del polpaccio (la sura) fui costretto a tre mesi di immobilità totale e tanto dolore

Ho conosciuto il prof Agostino Traldi nel 1967. Avevo 11 anni ed ero già segnato duramente dall’emofilia, una malattia ereditaria che all’epoca picchiava duro, perché non esisteva niente per arginare le emorragie più o meno spontanee. Hanno scoperto che avevo l’emofilia a tre mesi in occasione di un taglio al labbro seguito da un sanguinamento che non cessava e un medico di Viareggio diagnosticò: EMOFILIA. Tanti ricoveri in età pediatrica tutti rigorosamente brutti, senza avere accanto mia madre perché all’epoca non era permesso alle madri di stare accanto al figlio ricoverato. Anni di gessi, di siringature ai ginocchi, soprattutto emartri (il sangue esce dai vasi e si versa nelle articolazioni) che ti costringevano a dolori lancinanti per giorni e poi ad immobilizzazione di braccia o gambe per 10 giorni, affrontare la cosiddetta febbre da assorbimento quando iniziava a sgonfiare la parte e piano piano ricominciavi a muovere l’arto. A quel punto sembrava troppo bello poter avere un braccio o una gamba che tornavano ad articolarsi, attentarsi di nuovo a camminare e uno si dimenticava per qualche giorno la malattia: si viveva una specie di rinascita. Purtroppo ad ogni episodio non si recuperava mai il 100 per cento dell’articolazione colpita: qualcosa, ogni volta, veniva perso per sempre, ma apprezzavi ugualmente quello che avevi ritrovato e cercavi di non pensarci. Poi all’età di 8 anni, a causa di una emorragia al muscolo del polpaccio (la sura), fui costretto a tre mesi di immobilità totale e tanto dolore: da quel momento ho iniziato a camminare con il ginocchio piegato e con la punta del piede. La mia vita da quel momento cambia radicalmente. Il tentativo di trovare una via d’uscita ha innestato una spirale viziosa fatta di continui ricoveri, pesi e trazione, gessi e soprattutto medici che non sapevano o non avevano esperienza di emofilia e peggioravano solo le mie condizioni. Io non ero in grado di fare 500 metri di seguito senza avere un ginocchio o una caviglia che si gonfiassero e avevo delle grosse difficoltà ad andare a scuola. Allora non c’erano strategie a sostegno di alunni malati, e comunque i miei genitori non riuscirono ad attivarle. I miei genitori facevano di tutto per informarsi sui modi per farmi uscire da quel vortice. Qualcuno – non so più chi – all’epoca, siamo nel 1966-1967, ci parlò di un medico che aveva il coraggio di operare gli emofilici per togliere quella parte di sinovia che, infiammandosi, faceva gonfiare le articolazioni. In qualche modo i miei genitori arrivarono al professor Agostino Traldi e lo incontrarono a Lucca per una prima visita, approfittando del fatto che una volta al mese scendeva in Toscana nella casa di sua moglie, nella zona di San Cassiano a Vico. In quegli anni operava a Modena e per noi era più facile raggiungere Lucca. Traldi ci descrisse la sua tecnica di intervento sulla sinovia e spiegò che così riusciva a ridurre i sanguinamenti alle articolazioni. Ci disse di aver già operato un ragazzo di Firenze e che noi potevamo contattarlo per verificare di persona. I miei genitori andarono infatti a trovarlo e rimasero molto positivamente impressionati: per lui i sanguinamenti al ginocchio erano cessati. Ma era anche certo che operare un emofilico era molto rischioso. I miei genitori fissarono per me l’intervento a Villa Vittoria, che era una clinica privata sotto la direzione del prof. Storti. Io vi fui ricoverato alla fine di novembre del 1968. Fu lì che finalmente mi resi conto di non essere l’unico emofilico esistente al mondo: c’erano altri ragazzi e mi sembrò incredibile poter condividere esperienze e parlare con qualcuno che aveva i miei stessi problemi. Il detto “mal comune mezzo gaudio” è profondamente vero. Parlare, confrontarsi, suggerirsi espedienti per alleviare la sofferenza mi diede aiuto allora, come negli anni a seguire. Villa Vittoria era un bell’ambiente, con televisione e bagno in camera e soprattutto ogni stanza aveva un letto per la madre. Nel 1968 non c’erano né crioprecipitati né emoderivati: per superare l’intervento erano disponibili solo trasfusioni di sangue o di plasma e forse è per questo che il chirurgo cercò di ridurre al minimo il taglio, che non superava i 10 centimetri. Intervento riuscito: il mio ginocchio aveva ora una piegatura di 90° gradi. Fu lì a Villa Vittoria che, oltre a Traldi, conobbi anche il dott. Davoli e l’ortopedico dott. Tosatti. Traldi e Davoli si spostavano sempre insieme all’interno della struttura sanitaria; ricordo che Davoli aveva una Fiat 500 scassata che non voleva mai entrare in moto. A Traldi non piaceva dover esercitare in una struttura privata perché il costo dell’intervento e del ricovero era alto. Nel 1968 mio padre pagò 1.050.000 lire, quando una 500 nuova costava 600.000 lire. La mia non era una famiglia benestante ma i miei avevano accolto con gioia la possibilità di una speranza, nonostante la cifra. Traldi voleva rendere le cure accessibili a tutti (per questo più tardi si trasferì nell’ospedale di Castelfranco Emilia). La struttura nella clinica non era bella, anche il vitto era scadente e non so dire come mai le degenze fossero così lunghe: io sono stato ricoverato per 4 mesi per un allungamento del tendine di Achille e sinoviettomia alla caviglia sinistra. E tutto ciò sempre per riparare i danni dell’emorragia alla sura (il muscolo tricipite del polpaccio); credo fosse il ’70-’71. Ho conosciuto persone che faranno parte per sempre dei miei ricordi, ragazzi con i quali si soffriva e si scherzava ma soprattutto si condivideva la voglia di riprendersi la vita. Dò la formazione di quella stanza enorme con 8 ragazzi e 8 madri: sulla destra Antonio F., Daniele P., Ernesto V., Arduino; di fronte Sandro C., Renato (di Roma), Giovanni Maria (un ragazzo sardo col quale ricordo di essere stato operato), i fratelli Gentile – e tanti altri che non ricordo i nomi.

 

L’ho conosciuto nel ’67 in un paesino alle porte di Lucca. Nel 2017 l’ho salutato per l’ultima volta nella chiesa dello stesso paesino

Traldi dopo anni di lotta riuscì ad aprire un centro tutto dedicato a noi e si trasferì a Castelfranco Veneto. Sapevo del trasferimento e una sera di fine maggio del ’74 sento squillare il telefono. Era il prof. che mi dice: “Daniele, adesso che sta per finire la scuola e andrai in vacanza vieni a Castelfranco dove ho messo in piedi un reparto e un centro di fisio-chinesiterapia proprio per voi. Ti aiuterà molto per le tue articolazioni. Non ti fare accompagnare dai tuoi genitori, prendi il treno da Prato, scendi a Padova e lì prendi il treno per Castelfranco Veneto”. Fu una gran bella esperienza per me che non avevo mai messo il naso fuori da Firenze.

 

Mi ricordo che a Padova presi il treno a vapore perché per Castelfranco non c’era la linea elettrificata e si attraversavano i binari a piedi perché non c’era il sottopasso. Scoprii che per i veneti la bistecca è quella che noi toscani chiamiamo braciola, e la braciola è quella che noi chiamiamo bistecca. Il Veneto era l’inverso della Toscana, da noi tutti rossi, lì tutti bianchi democristiani, in comune c’era tanta solidarietà e tanta voglia di lavorare e far progredire l’ artigianato e la piccola imprenditoria; vedevo un pullulare di attività come nelle mie zone di Prato e Firenze, per tutti una passione comune per il vino. Eravamo ricoverati in ospedale ma questo era a nostra misura: non eravamo carcerati con divieto di uscire, appena si stava bene si andava al mercato, si andava ad ascoltare il jukebox sotto le logge del centro. La domenica a volte andavamo a Venezia in treno e tutto questo in compagnia di altri ragazzi e perfino con le mitiche ragazze del corso infermiere. In quel reparto era rappresentata tutta l’Italia e ci confrontavamo sui nostri problemi di adolescenti. In quel periodo, nel 1975, sentivo che stavo uscendo dal buio della forma più violenta della malattia perché, bene o male, dopo gli interventi riuscivo a ricamminare quasi normalmente e vedevo la prospettiva concreta di poter fare quasi tutto quello che facevano gli altri. Avevo la consapevolezza che la mia situazione avrebbe comportato degli arresti e delle ritirate, anche dolorose, ma si stringeva i denti e si andava avanti perché la vita che si iniziava ad assaporare era infinitamente piu forte. Quando c’erano dei problemi il prof. era reperibile o in reparto o a casa, a qualunque ora. Lui c’era, sapeva valutare esattamente la tua situazione e affrontare il problema nel modo più appropriato. Ricordo, era l’anno ’96, avevo delle emorroidi che sanguinavano ormai da quindici giorni. Traldi mi dice: vieni su. Arrivo a Castelfranco e Traldi mi manda a Treviso da un proctologo, che mi visita e dice che non c’è bisogno di intervento. Riferisco al professore la diagnosi. Traldi si alza e dice all’infermiera di chiamare il medico di Treviso: si parlano e Traldi lo convince che per me è necessario l’intervento. Poi viene da me e mi dice : “Daniele io non ti voglio operare per forza ma da codesta situazione devi uscire definitivamente, altrimenti per un po’ starai meglio ma poi ci ricascherai e sarai costretto a intervenire, ma poi, con il passare degli anni, non avrai gli stessi risultati di adesso. Fai tu la scelta”. Io gli risposi : “Se lei ritiene che per me la scelta giusta sia operarsi io mi opero”. Da allora non ho più avuto problemi di questo tipo. Questo era Traldi, sapeva vedere l’evoluzione del problema fare la cosa giusta. Ho sempre seguito i suoi consigli anche quando qui in Toscana venivano aperti centri per la cura dell’emofilia, dove il plasma e poi gli emoderivati venivano usati e abusati. Il prof. è sempre stato contrario all’uso massiccio di emoderivati, prima per il timore dell’insorgenza dell’inibitore, che ti riportava a non avere più difese per le emorragie, poi per il timore di contagi attraverso il sangue e la diffusione di HCV e HIV, che ha distrutto una popolazione di emofilici, dimostrando che i suoi timori erano fondati. Grandi sono state le battaglie del professore che, assieme all’AVIS Veneto, è riuscito a creare un pool di donatori controllati da cui ricavare prodotti sicuri da usare in ospedale. Questo modo di operare gli creò isolamento e tante difficoltà ma poi il tempo gli diede ragione, e il suo viene adottato come protocollo in tutta Italia per le donazioni del sangue. Io non potrò mai ringraziarlo abbastanza, perché se ho avuto una vita normale, una famiglia, due figli e adesso sono anche nonno lo devo in buona parte a lui, che era sempre presente per i suoi ragazzi, Natale o Pasqua, 365 giorni l’ anno. Lui c’era. Ho conosciuto il prof. Agostino Traldi nel ’67 in un paesino alle porte di Lucca e per ironia della sorte nel 2017 l’ho salutato per l’ultima volta nella chiesa dello stesso paesino.

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