roma capoccia

La pandemia ci ha reso peggiori

Andrea Venanzoni

Camus descriveva la peste come fattore di ordine e di efficienza, ma Roma evidentemente non è Orano. Tragica disamina

Roma non è la Orano narrata con vivido disincanto dalla penna di Albert Camus. E lo si capisce quando, tra le pagine de “La peste”, ci si imbatte nella serafica riflessione camusiana sulla peste come fattore di ordine e di efficienza.

A Roma, in effetti, che la pandemia possa aver portato una funzionalizzazione delle istituzioni votata all’efficienza appare assai arduo poterlo dire.
Ed è di pochissimi giorni fa la notizia che ben 1.200 dipendenti Atac, tra amministrativi, personale tecnico e operativo, il 10 per cento del totale del personale a disposizione, è risultata positiva al coronavirus o costretta alla quarantena per un contatto diretto: una ondata di assenze notevoli che ha falcidiato un servizio già allo stremo, come possono constatare giorno dopo giorno i pendolari sempre più afflitti da una sorta di supplizio di Tantalo.

S’è avanzata anche la proposta di mettere al volante i militari, per sostituire gli autisti indisponibili. Una riedizione pandemica del monicelliano “Vogliamo i colonnelli”, adagiato questa volta sul delicato crinale dei servizi pubblici disfunzionali. Ma poco se ne è fatto perché l’amministrazione capitolina sarebbe di avviso assai diverso rispetto ai dirigenti Atac proponenti della singolare proposta. Ed è incredibile dover constatare come quelle catenelle comparse a separare lo spazio vitale dell’autista e l’utenza, sorta di barricata anti-pandemica, mai più davvero autorizzate a partire dal 12 novembre scorso dopo l’intervento del Mims ma pure ancora presenti e stabili, a poco allora siano servite.

Non tanto meglio va sul versante della spazzatura, giacché i cassonetti ancora traboccano dolentemente di sacchi e di tanto in tanto i cinghiali vanno a pascolare in branchi per sfamare loro e i loro cuccioli in quei fast food dello schifo. La natura si riprende i suoi spazi? No, più semplicemente ordinaria routine capitolina. Se qualcuno pensava che fossero scomparsi, si dolga di questa constatazione: un problema non scompare semplicemente perché si chiudono gli occhi o si smette di parlarne.

E quindi, no: quegli ungulati selvatici, aggressivi e pittoreschi svernano in strada, sciamando dalle periferie verdeggianti sempre più verso il centro. Ci sarà da preoccuparsi ora che in altre zone d’Italia si scoprono casi di peste suina portati nientemeno che dai cinghiali? Ci mancherebbe solo questa e magari i Lanzichenecchi del 1527. La raccolta dei rifiuti, tra scarsa igiene, tappezzeria di sacchetti e paure pandemiche, continua a essere una spina nel fianco di qualunque amministrazione. Ma in tempi di pandemia, assai spesso la tragedia fa perdere il senso della misura e, sia detto con massimo rispetto, pure del ridicolo.

Notizia di pochissimi giorni fa: due operatori ecologici muoiono contagiati dal Covid. Alla costernazione e alla sofferenza delle famiglie, e alle giuste preoccupazioni di sicurezza lavorativa, si aggiunge un sordo rumore di fondo di bassa polemica che sfocia in una deriva surreale.
Un sindacato, per bocca del suo segretario generale regionale, rilascia un contorto comunicato governato da quella strana logica della inverosimiglianza a cui ci ha abituati la pandemia. Testuale per come riportato dalla stampa, affermano dalle parti del sindacato per spiegare il contagio, “potrebbe essere avvenuto anche a causa di eventuali rifiuti raccolti da condomini con utenza Covid”. Potrebbe.

Una notizia smentita con decisione dall’Ama, la quale per parte sua ha citato studi dell’Istituto Superiore di Sanità e ha fatto rilevare come i due deceduti fossero malati da tempo e pure ha sottolineato la gravità di certe asserzioni. E questa polemica è invero piuttosto pietosa perché oltre al dolore delle famiglie dei due, c’è da dire che se ci si contagiasse di Covid a causa dei sacchetti allora sì che finiremmo sparati dentro l’abisso della peste camusiana, guardando sconsolati la messe irrisolta di spazzatura abbandonata un po’ qui, un po’ là.
 

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