Bus Atac a Roma (Ansa)

Roma Capoccia

Un tram chiamato Covid: le confessioni di un pendolare Atac

Andrea Venanzoni

La corsa ai posti migliori diventa una gara per la vita. Ma quando la densità antropica nel vagone diventa simile a un carnaio da rave a Ibiza, allora i più disperati si siedono comunque. Non resta che sperare in scioperi e smart working

Servizio pubblico o sevizia pubblica? È il primo pensiero che mi balena per la testa mentre fermo sulla banchina attendo che lo sferragliante trenino Roma-Lido mi aliti in faccia la sua aria calda: con gentile eufemismo lo si definisce ‘rimodulato’, ovvero un convoglio ogni venti minuti in piena ora di punta. Quando, per miracolo, ne dovesse arrivare uno quasi puntuale ti viene in mente la frase di Karl Kraus, ‘ci sono dei treni non puntuali che non sanno abituarsi ad attenersi ai loro ritardi’. Pendolari e redivivi studenti, con le scuole riaperte, che si accalcano in una configurazione laocoontica a metà tra un dipinto di Escher e un match di wrestling: la corsa ai posti migliori diventa una gara per la vita, anche perché le sedute sono contingentate, presidiate da adesivi che vieterebbero l’utilizzo dei posti intermedi. Condizionale d’obbligo: quando la densità antropica nel vagone diventa simile a un carnaio da rave a Ibiza in tempi pre-pandemici e l’aria si rende irrespirabile, con gli occhiali appannati dalla calca inumana e dalle mascherine ormai così aderenti al volto da essere divenuti bendaggi alla Silent Hill, i più disperati finiscono per violare quel precetto e si siedono comunque.

 

Nessuna traccia di contingentamento dei vagoni: d’altronde la ‘rimodulazione’, cioè il passaggio in ritardo strutturale dei convogli, renderebbe impossibile rispettare quote di passeggeri da far salire e altre da lasciare a terra, in un circuito vizioso da difficile tenuta dell’ordine pubblico. Finita così? Chiaramente no. Perché in certa misura il trasporto pubblico romano è divenuto la prosecuzione della patafisica, l’arte di vedere l’invisibile, decantata da Alfred Jarry: deve esserci una motivazione, ti dici, una razionalità invisibile dietro certe scelte. Prendiamo i percorsi anti-contagio predisposti nelle fermate della metro: sono state sbarrate modello assedio di Stalingrado le cancellate, interdetti alcuni passaggi, piantati paletti che costringono a una gincana che farebbe rimpiangere Giochi senza Frontiere. E così ondate su ondate di pendolari si incanalano tutte per lo stesso punto, col risultato di maxi-ingorghi che toglierebbero il sonno per settimane al Cts. Se tentate di utilizzare le scale mobili o gli ascensori ci saranno buonissime possibilità li troviate non funzionanti.

 

 

Anche qui, gentile eufemismo per addolcire la realtà dei fatti; ci saranno paraventi e segnali di sempiterni lavori che come la Sagrada Familia del Gaudì rendono gli impianti di traslazione una opera d’arte postmoderna in continuo divenire. Se ne contano ad oggi 186 non funzionanti, per la comprensibile gioia dei disabili, in alcuni casi portati a braccia da volenterosi pendolari come accaduto qualche tempo addietro a Termini. Termini, già. Dopo ‘Ultima fermata Brooklyn’ di Hubert Selby jr., adesso c’è ‘Ultima fermata Termini’, perché le stazioni immediatamente successive di Castro Pretorio e Policlinico, che in teoria servirebbero Biblioteca Nazionale, Ospedale Umberto I e Università La Sapienza, sono chiuse da mesi per lavori. Allora, ti dici, prenderò il bus. Certo, quando passa. Carnaio su ruote con la gente che si sporge dai finestrini, per poter scegliere se respirare l’aria viziata di covid o il venticello gonfio di smog. Ormai per salvarti non ti resta che sperare nella indizione di uno sciopero o nello smart working. O in entrambi.

 

Di più su questi argomenti: