Giampaolo Pansa

Giampaolo Pansa

Stefano Di Michele

Era un meraviglioso cagnaccio che azzannava polpacci di democristiani e socialisti. Sei diventato di destra? Risata e sospiro: “Io mi sento un anarchico liberale. Mi piacerebbe tornare a votare a sinistra, ma la sinistra è spappolata”

Ora dice così: “Se la sinistra non mi vuole me ne sbatto. Penso che loro stiano sbagliando, ma non me ne rammarico”. Piano, però. Prendiamola un po’ da lontano. Chissà quale anno era, di preciso. Tardo autunno della Prima Repubblica, comunque, Tangentopoli alle porte ma ancora inimmaginabile. Festa dell’Unità, pure questa chissà dove, di sicuro nel triangolo rosso tra Bologna e Modena e Reggio, là dove la grandeur festivaliera del Pci in transito verso il Pds si era ormai rinserrata. Il cronista dell’Unità deve intervistare Luigi Pintor sul suo libro “Servabo”. Ma Pintor non arriva. “Aho, qui c’è Giampaolo Pansa che presenta il suo, di libro. S’intitola ‘Il Regime’. Che faccio, intervisto lui?”. “Vabbè, se non c’è Pintor…”.

 

Pansa era un meraviglioso cagnaccio che azzannava polpacci di democristiani e socialisti – allora polpacci ancora succulenti, buona carne nonostante il sangue stanco – gloria ambita di ogni palco democratico. Una lunghissima intervista, tutta la seconda pagina del quotidiano (ancora) fondato da Gramsci. Qualche anno è passato, chissà che giorni sono adesso, di preciso. La Prima Repubblica ha reso l’anima a Dio e a Di Pietro, Tangentopoli impazza, e qualche schizzo ha raggiunto la granitica illibatezza del “partito dalle mani pulite”. Solito palco, solita festa, solita città, solito Pansa, insolito Occhetto. A un certo punto, lo screanzato cronista domanda: “Ma perché non ti dimetti?”. La screanzata platea applaude. Scandalo. Dice il giornale al solito cronista: “Senti la gente della festa, che non sarà d’accordo”.

  

E dunque: ammazza, ’sto Pansa, che provocatore! Che pezzo di carogna ingrata! E forse prima de “Il sangue dei vinti”, fu il sangue che salì agli occhi quella sera al vertice occhettiano del partito che fece del democratico giornalista Pansa, inteso perciò pure un po’ compagno, prima un giornalista – e basta; poi un giornalista – e non basta, essendo pure un po’ rompicazzo. Da quella sera, sono volati anni (non poeticamente corti come giorni, ma neanche di molta lunga durata), governi, partiti, giornali, legislature e amicizie. Solo uno già c’era – e ancora qua sta, magari un po’ ammaccato e opacizzato, un argentone politico per il quale neanche una passata di Sidol può ormai fare qualcosa, ma sempre in sella e tricologicamente persino più dotato: Silvio Berlusconi, el caballero negro, intenzionalmente velinaro e tendenzialmente velinista. E ci fu pure un giorno – qui la data è certa: il 25 aprile del 1994, un diluvio che pure il Padreterno lacrimava – quando una simile nequizia s’era appena accasata a Palazzo Chigi, e il cronista dell’Unità se ne stava nell’ufficio del condirettore dell’Espresso Giampaolo Pansa, a rimirare la democratica e antifascista e antiberlusconiana sfilata in quel di Milano – tutto un guardare  e tutto un rabbrividire – e fu nuova intervista, a nobile e intera seconda pagina, del democratico maestro del giornalismo per la democratica gazzetta pidiessin-veltroniana.

  

E l’Unità di Walter persino ripubblicò (gratis, diciamo, a maggior gloria della giusta causa) alcuni volumi pansiani, e Fabio Mussi, a nome e per conto di Occhetto, una candidatura parlamentare aveva già offerto. Anni sono volati, anni. Forse fu il sospetto, ironicamente e crudelmente alimentato da Pansa sul declinare degli anni Novanta, della presenza sulla scena politica del Dalemoni – un’illuminazione notturna, che appuntò su una scatola di fiammiferi, e che mutò giornalisticamente in tormentone – il combinato disposto tra D’Alema e Berlusconi, sorta di Avatar inciucista d’antan. Forse, forse, forse… Perché adesso non pochi, a sinistra, dicono che Pansa sia diventato di destra, dicono che sia un Cavalier servente, dicono che scassa in continuazione le palle con quelle storie di guerra civile e cattiveria partigiana. Dicono: lo vedi, sul Riformista scrive, e sarà mica di sinistra quella roba di Polito? Dicono: su Libero, scrive, e se non è di destra il manufatto di Belpietro, che cos’è di destra? La stupidità primitiva di certo antifascismo militante – che mancando la materia prima (uno andava verso il ridotto della Valtellina, l’altro sogna gli ozi di Antigua) dev’essere pure un faticoso militare a vuoto – che tanto dà a Pansa e tanto a un Piero Sansonetti, ha fatto il giro completo della logica e della democrazia, così che una parodia dell’antifascismo fascisticamente cerca di impedirti di parlare.

   

“In base a un principio imperialista e coglione sono stato anche contestato”. Facciamola corta, Pansa: sei diventato di destra? Risata e sospiro: “Io mi sento un anarchico liberale, e da tre elezioni non vado a votare. Certo, mi piacerebbe persino tornare a dare il mio voto a sinistra, ma non c’è più, la sinistra. E quella che vedo ha dei difetti pazzeschi, che ho sperimentato sulla mia pelle, soprattutto dal 2003, quando ho pubblicato ‘Il sangue dei vinti’: una boria arrogante da parte di chi è convinto di avere dalla sua l’unica verità possibile”. Dice pure, Pansa, che a un certo punto gli è tornato in mente il suo maestro delle elementari, lassù a Casale Monferrato, “il maestro Dondero, con i suoi occhiali dalla montatura d’oro”, che tirava una riga col gesso sulla lavagna, e da una parte segnava i buoni e dall’altra i cattivi. “Io ero sempre tra i cattivi, perché mi agitavo, ero vivace… Così a sinistra hanno fatto come il maestro Dondero: hanno tirato una linea e hanno spostato il mio nome dalla colonna dei buoni a quella dei cattivi. Ma vuoi sapere una cosa? Non me ne frega niente!”.

   
Rimpianti lo stesso: niente, giura. Pentimenti: nessuno, garantisce. “Ho letto l’intervista che hai fatto a Sansonetti, si sente che Piero ha qualche rimpianto di quel mondo… E magari anche tu hai qualche nostalgia, sei stato un militante del piccì, hai lavorato al giornale del partito… Io, grazie a Dio, non ho mai militato in un partito, mai preso una tessera di partito, mai lavorato per un giornale di partito… Perciò adesso non rimpiango niente, e mi ripeto spesso che è meglio avere rimorsi che rimpianti. E poi, scusa, di cosa dovrei avere nostalgia? Di Berlinguer, che quando gli feci per il Corriere della Sera la famosa intervista sulla Nato, nel 1976, censurò se stesso, e sull’Unità  fece pubblicare una versione dove la risposta sulla Nato era sparita? Mai, giuro, mai mi prende questo tipo di nostalgia… Guarda, ho addirittura quasi più nostalgia di uno Spadolini, che ho sfottuto tantissime volte quando era in vita, che della sinistra italiana. E sai che ti dico? Che in fondo, sono la prova vivente di come si possa vivere, in questo paese, anche senza l’applauso della sinistra, che ormai batte le mani solo a se stessa”.

  

Poi non ti lamentare se dicono che sei di destra… Altra risata: “Solo perché dico cose sgradite alla sinistra? La sinistra ha un modo elementare, quasi primitivo, di reagire: chi non le dà ragione diventa di destra. Non me ne importa assolutamente n-i-e-n-t-e! N-i-e-n-t-e! Non faccio il lamento dell’ex e non mi sento neppure ex”. Così alla fine – e così a Pansa dev’essera andata – ci prendi pure gusto, ti diverte far venire il torcibudella, scombussolare un po’ il campo dove – seppur senza militanza, seppur senza tessera – quasi naturalmente venivi assegnato. “Ti dirò di più: faccio mio il comandamento di Totò. Lo ricordi? Insistisco, diceva. Insistisco pure io”. Così, a novembre uscirà il nuovo libro di Pansa, sempre da Rizzoli. E sentite: Sarà il seguito de ‘Il sangue dei vinti’. Si intitolerà ‘I vinti non dimenticano’. Per il resto, cosa vuoi che me ne freghi, ho anche l’età ideale per comportarmi in questo modo, insomma, per fregarmene… Vivo lontano sia da Roma che da Milano, scrivo per il Riformista e per Libero, leggo romanzi, pago le tasse, parcheggio per bene, faccio un po’ di beneficenza… A ottobre compirò 75 anni, l’unico che può crearmi problemi, a questo punto, è il Padreterno… Mio padre Ernesto, che aveva fatto per tutta la vita l’operaio del telegrafo, morì all’improvviso, nel sonno. Ancora quella mattina si era arrampicato sopra un albero. Aveva 79 anni. Una buona morte, mi dico sempre, una morte fantastica”.

  

Ecco, gli anni
. E non stiamo a ripetere di come passano e di come volano. Ma di quanti sono, forse è il caso. Perché proprio sulla quantità si è accesa l’ultima polemica di Pansa, nientemeno che con il suo ex editore, Carlo De Benedetti: quello gli aveva dato del vecchio, questo ha risposto a muso duro che, vecchio per vecchio, lui lo era di più – con quel che consegue, con rispetto parlando, dal punto di vista del reciproco sospetto  senile rincoglionimento. “Io sono nato il primo ottobre del ’35, lui il 14 novembre del ’34, per essere precisi. Sai, il problema di questi padroni è che c’è sempre qualcuno che fa i conti per loro, che gli guarda la macchina e  tiene in ordine l’ufficio e la casa. Quando fanno i conti da soli, sbagliano. E ti dico che mai mi sono così tanto divertito a scrivere qualcosa come quell’articolo sull’Ingegnere…”. Che ha contato, però, nella tua vita, e molto, l’Ingegnere De Benedetti. “No, no, aspetta un momento: sono io che ho contato per lui . Che faccio, devo essere grato al padrone che mi dà da lavorare? Per il suo Magno Gruppo ho lavorato 31 anni, 14 a Repubblica e 17 all’Espresso, fino al 2008, quando sono andato via. Mi ricordo lì all’Espresso la direttora, Daniela Hamaui, che quel giorno strillava e sembrava non trovasse pace: ‘Perché vai via? Perché?’. Pareva che fosse scappato il filippino. Subito dopo incontrai proprio De Benedetti, per un’ora e mezzo, lì a Largo Fochetti. Poi se l’è presa per un’intervista al Corriere, dove ho detto che forse  aveva voglia di gettarsi in politica. Si è arrabbiato, mi ha telefonato, mi ha mandato un’e-mail… Posso aver avuto un’opinione errata, ma resta il fatto che ha sempre un anno più di me. Si è comperato da poco una casa nelle Langhe, ma non ce lo vedo tornare lì a fare il vino… Intanto ho imparato che fare il dipendente grato con il padrone, perché ti ha fatto lavorare, non è accettabile”.  

  

Adesso Giampaolo Pansa vive in un piccolo paesino toscano, insieme alla sua Adele. Penna storica (“ma – dice Adele – se duri ancora due o tre anni diventi penna preistorica”) del giornalismo democratico italiano, cronista politico di mille invenzioni diventate piccoli classici, e assicura di capire meglio il mondo dal piccolo borgo che dalla rognosa metropoli. “Se mi affaccio alla finestra vedo le querce, l’aria sta cambiando, arriva un po’ di scirocco…”. E mica è solo il frusciare delle foglie, che si apprezza, o la limpidezza dell’aria. “Non vedo tutti quelli a cui sto sulle palle, parlo al telefono con gli amici, parlo con i direttori per cui scrivo, parlo con Adele, che sta nel mondo più di me, ha buonsenso, fa la spesa, è un’ex ragazza di sinistra anche lei, faceva la funzionaria della Cgil… L’ultima telefonata ricevuta da un politico, dopo la mia lite con De Benedetti, è arrivata da Massimo D’Alema, durata una ventina di minuti. E’ stato l’unico politico che ha risposto all’Ingegnere con l’orgoglio del dirigente politico, e ha fatto bene…”.

 

Dice che “la sinistra è spappolata”, Pansa, ma non dice bene neanche del centrodestra, “ridotto com’è ridotto oggi, ai piedi di Cristo”. Si sente “un vero qualunquista”, che poi è pure difficile da spiegare bene – solo che la sinistra sognata non c’è, e la destra che c’è è quella che è, e chissà se mai qualcuno riuscirà più a imporre “regole eque che valgano per tutti”, nel paese di risse e battibecchi e distinguo. “La mia sinistra si chiama libertà e uguaglianza: quando invecchi certe cose diventano importanti… Scrivere libri è anche una distrazione, aiuta a non vedere quello che capita intorno, perché quello che capita intorno mi fa paura. C’è un’ariaccia, e non ci sono più le forze per tendere a qualcosa di unito, di sensato…”.

 

Non ha neanche tanta voglia, Pansa, di rammentare una per una tutte le polemiche affrontate dopo “Il sangue dei vinti” e tutto il resto: con Giorgio Bocca, con il professor Lucio Villari, con Eugenio Scalfari, “l’ho sfottuto sul Riformista e su Libero, non ho la sindrome del reduce”. Dice che certe volte, adesso, si sente come sua nonna Caterina, “che non poteva soffrire nessuno, gli andavano bene solo i frati”. Quando gli impedirono di presentare il suo libro a Reggio Emilia  (“Non andare in giro a promuovere il tuo libro infame perché rischi di tornare a casa con le ossa rotte”, uno dei messaggi ricevuti), Napolitano pubblicamente dal Quirinale  fu solidale. Lo chiamarono, ha raccontato, pure Prodi e Veltroni e Fassino – ma a Pansa un dubbio restò, e ancora resta, e lo ha messo per iscritto: perché non resero pubblica quella loro solidarietà? “Paura di una reazione dell’Anpi? O di una parte dei loro elettori? Perché, anche assalito, restavo pur sempre un cattivo soggetto per le sinistre, uno che diffamava la Resistenza?”. Ferite che difficilmente si rimargineranno – più un voltare lo sguardo, un girare gli occhi, un ignorarsi che si muterà sempre più in un non riconoscersi. Di destra o no, qualunquista o no, berlusconiano o no – qualsiasi sospetto i nuovi detrattori possano avanzare e qualsiasi accusa gli antichi amici si troveranno a dover fronteggiare, una linea netta – un taglio irrimediabile Pansa stesso l’ha dato, quando ha intitolato la sua autobiografia (cosa si era, cosa si diventa; e perché si era così, e perché così si è diventati) proprio con una delle più cocenti accuse che da sinistra gli hanno rovesciato addosso: “Il revisionista”. Insulto doloroso, che Pansa ha voluto piazzarsi in petto come una medaglia, nave bruciata per sempre alle spalle – i giorni delle querce e dell’aria che annuncia scirocco contro quelli dei palchi e delle polemiche che annunciavano tempesta. “Se qualcuno oggi mi domanda se sono un revisionista, rispondo: sì, lo sono, e vorrei diventarlo sempre più”. Ma non ha tristezze personali, l’antico giornalista democratico ora revisionista autocertificato. “Così come da ragazzino, sono allegro e di buon umore. Sono riuscito a fare per tutta la vita il giornalista, quello che avevo sempre voluto fare…”. E che un milione di cose ha visto e raccontato, prima del riparo nell’eremo toscano. E ridendo ricorda ancora di quando tornò alla Stampa, nel ’68, con Alberto Ronchey direttore, e il suo vice, Giovanni Giovannini gli disse: “Tu, Pansa, ti occuperai della Padania…”, pensa un po’, trent’anni prima dei carrocci e dei pratoni leghisti. O il triste sollievo di aver portato a casa la pellaccia, quando i terroristi rossi che fecero fuori Walter Tobagi avevo preso prima di mira lui, lo avevano seguito mentre a Milano portava a spasso il suo cane: un giorno, due giorni, il terzo giorno gli assassini sono già appostati per sparare. Ma Pansa non scende, il cane non si vede: lo ha salvato una telefonata di Scalfari, la sera prima, che gli chiedeva di rientrare a Roma.

Un aereo preso all’ultimo minuto, perché Gianni Rocca – “uomo perbene, di sinistra, tutto il contrario della sinistra come oggi la vedo” – l’altro vicedirettore, si era ammalato, e così il caso decide – e il branco che doveva sbranarlo finisce con lo sbranare l’innocente Tobagi: così metodico, così costante, così lasciato indifeso dalla sorte, senza neppure la protezione del raffreddore di un amico che ti salva la vita. Certo che a volte Pansa ripensa a tutto questo, a tante parole scritte e dette, a tanti palchi, a tanti applausi e a tanti fischi – e il  peggio arrivato dopo. “Ma quei palchi non ci sono più, non ci sono più neanche quelle folle” – che dice di non rimpiangere, ma in fondo alla voce la sfumata impressione di una qualche nostalgia pare di sentirla. O forse uno crede di sentirla solo perché ha più nostalgia di lui. “Grazie ai miei libri, negli ultimi anni ho incontrato un numero impressionante di nuovi amici e di persone che mi stimano. Da questo punto di vista mi sento umanamente appagato. E su cento persone che incontro per strada, nessuno che mi dica: sei un tipo da prendere a schiaffi!”. Magari solo perché chi non è d’accordo con te cambia marciapiede. Ancora una risata: “E io rifaccio come Totò: insistisco!”. Dice che come la nonna Caterina, che era analfabeta e leggeva Grand Hotel perché per capire le storie le bastava guardare le facce, così adesso per capire le cose ascoltare le parole non serve più, e che si potrebbe togliere l’audio a certi programmi televisivi e comprendere lo stesso che aria tira: facce ed espressioni che nulla di buono promettono. “Anzi, farò presto questo esperimento…”. A quest’ora del pomeriggio, i giornali sono solo un mucchio di carta senza più importanza. C’è vento tra le querce, e Pansa l’osserva come una volta, col binocolo, dalla tribuna stampa osservava la messa in un congresso di partito. E scruta e decifra – come allora. “Sta arrivando un po’ di scirocco…”. Che non sia troppo caldo, c’è da sperare – tutto intorno a questi giorni c’è bisogno di aria lieve.

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