Luca Lotti (foto Ansa)
a tu per tu
Se cade uno del Pd. La versione di Luca Lotti
La damnatio memoriae del renzismo, il riformismo come colpa da espiare, la vita dentro e fuori la politica. “Il Partito democratico non ha imparato dalla mia vicenda. Schlein imita il M5s? Alla fine la gente sceglie Conte”. Conversazione con l'ex ministro
“Privatamente qualcuno si è fatto vivo nel Pd in questi anni. Ma io non ho mai richiesto scuse e, se devo essere sincero, non so neppure se mi farebbe piacere riceverle. Le scuse possono essere formali, di facciata. Quello che conta davvero è rendersi conto di cosa succede a una persona quando le crolla tutto addosso”. Risponde quasi con cautela, Luca Lotti. Come se anche le parole, una volta pronunciate, potessero essere scambiate per qualcosa che non vuole chiedere. La sua vicenda politica e personale è stata una caduta lunga, rumorosa e insieme silenziosa. Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nei governi Renzi e Gentiloni, ministro dello Sport, leader con Lorenzo Guerini dei riformisti del Pd, per anni uno degli uomini più esposti e più coinvolti nei meccanismi decisionali della politica nazionale, ne è uscito travolto da una stagione di inchieste durata circa sette anni, che ha occupato le prime pagine dei giornali. Consip, lo scandalo Palamara: tutto si è risolto con archiviazioni, proscioglimenti, assoluzioni piene.
Gli chiedo allora come voterà al referendum sulla separazione delle carriere, lui che le correnti le ha conosciute. Non esita: “Io voterò sì”. Poi aggiunge una postilla che è la sua maniera di non farsi mai inchiodare a una posa: “Voterò sì, sono orientato al sì. Non perché sia la riforma perfetta: è una montagna che partorisce un topolino e avrà effetti veri tra quindici anni. Ma alcune cose mi convincono”. Secondo lei il Pd ha imparato qualcosa dalla sua vicenda politica e giudiziaria? “Ho dei dubbi”.
“Mi resta una speranza, questo sì. La speranza che il Pd non si rinchiuda in un giustizialismo di comodo, in un formalismo morale che serve solo a lavarsi la coscienza. Il Pd è nato come un partito garantista, democratico, riformista. Se smette di esserlo, non è più il Pd”.
Cosa resta oggi di riformista nel Pd? “Resta una minoranza culturale, più che politica. Resta l’idea che il riformismo non sia una colpa da espiare”. L’avvicinamento ai Cinque stelle è una scelta tattica o sta cambiando la natura del Pd? “Finché è una strategia per andare al governo, è comprensibile avvicinarsi un po’ ai Cinque stelle. Ma se diventa un’identità stabile, allora sì, si snatura il Pd”. Ma se alle primarie si trovassero uno contro l’altra Giuseppe Conte ed Elly Schlein, chi vincerebbe? “Io, da elettore del Pd, voterei la segretaria del mio partito. Ma l’elettore che va alle primarie per mandare a casa il governo Meloni, quello che non è iscritto e decide all’ultimo, tra la copia e l’originale sceglie sempre l’originale. E questo dovrebbe far riflettere. Perché, sul serio, secondo me vincerebbe Giuseppe Conte”. E Silvia Salis? “E’ in gamba, si è fatta strada da sola. E proprio per questo deve stare attenta alle lusinghe del potere e a chi le fa la corte. Deve pensare solo a fare bene la sindaca di Genova. Quando ti trattano come una risorsa, spesso è il modo più rapido per fregarti”.
Luca Lotti ha quarantadue anni, quando entrò a Palazzo Chigi per la prima volta ne aveva trentuno. Oggi siede composto nella saletta convegni di un albergo del centro di Roma, una di quelle stanze neutre, senza memoria, pensate per incontri istituzionali e convention d’azienda. Lui è come sempre, o almeno come lo si ricordava ai tempi dei governi di centrosinistra. Lo guardi e ti torna addosso un’immagine che in politica conta più dei curricula. Capelli biondi, chiari, radi, un biondo che da ragazzo faceva quasi luce e che adesso si è assottigliato. Per questo lo chiamavano “lampadina”. Il soprannome, in Toscana, non è mai solo una battuta. “Lampadina” era il ragazzo rapido, sempre acceso, sempre in giro. Quello che faceva politica come mestiere “perché lo è un mestiere, è una professione, richiede competenze. E chi dice il contrario o sbaglia o è totalmente in malafede”. Oggi cosa fa Luca Lotti? “Lavoro fuori dalla politica. Faccio l’advisor per la squadra dell’Empoli. E mi occupo anche di risorse umane”. Segue società, fondazioni, si occupa di sport. All’Empoli di rapporti istituzionali e di organizzazione, non di campo. “Per quello c’è il direttore sportivo”. Ma quando parla dei ragazzi che crescono nel settore giovanile si appassiona, come ai tempi del ministero dello Sport: “Il talento non basta. Se non imparano presto la disciplina, il sacrificio, il limite, si perdono. Vale nel calcio, vale nella vita”. Perché l’Italia non produce più talenti calcistici? “Perché il sistema è costruito per rendere più conveniente l’acquisto di un giocatore anziché il processo lento, graduale, ma remunerativo della crescita dei talenti nazionali. E aggiungo che comprare un calciatore all’estero non necessita di garanzie e fideiussioni come in italia”. Le manca qualcosa del potere? “Credo di no, perché ho recuperato ‘potere’ sulla mia vita. Libertà. Quello che mi manca sono gli ‘effetti’ del potere”. Cioè? “Quel particolare, ed eccezionale momento in cui capisci che, se vuoi, puoi cambiare davvero le cose. Modificare la realtà. Che è poi la ragione per la quale si dovrebbe fare politica”. Ed è quello che manca al Pd oggi? “Un partito dovrebbe essere in grado di proporre una visione per il paese. E a me sembra, purtroppo, che l’intera opposizione, incluso il Pd, sia fallendo in questo. Se non dimostri di essere pronto a governare, c’è il rischio di avere ancora altri cinque anni di governo Meloni”. Quanto durerà ancora il melonismo? “Penso diventerà il governo più longevo della storia della Repubblica”.
Lotti racconta il ritorno a Empoli come un rientro naturale, quasi fisiologico. “Era il mio collegio, prima che qualcuno se lo portasse via”, dice con un sorriso che forse nasconde, come in un pagliaio, un ago di rimpianto. Chi se l’è portato via il suo collegio? “Il segretario regionale del Pd”. Lo dice senza acrimonia. La sua uscita di scena è stata letta da alcuni come una sorta di resa dei conti interna al Pd. E’ stata, secondo lei, una liberazione politica per il partito? “Quello che mi è accaduto è stato usato per dire: ‘Vedete, voi non siete quello che volete sembrare, non siete quello che avete raccontato di essere’. Quella stagione politica lì, il riformismo renziano, che è stata una stagione di cambiamenti, di rivoluzioni, anche di errori, è diventata il bersaglio da colpire. Non una persona, non io, ma tutto quello che quella stagione rappresentava”. Si ferma un attimo, Lotti, poi aggiunge: “Da lì in poi c’è stata una spinta continua a cancellare. A demonizzare. A usare quel periodo come colpa originaria. Ed è assurdo, per un partito. E’ controproducente. Perché così screditi una parte della tua storia e, insieme, le persone che quella storia l’hanno fatta”. Com’è accaduto con il referendum sul Jobs Act. “Puoi criticarlo, modificarlo, proporre correzioni. Ma non puoi trattare la tua storia come una colpa”. L’errore sul referendum, dice, è stato inseguire i sindacati. “Non perché il sindacato sbagli: fa il suo mestiere. Ma un partito deve fare il partito. Altrimenti viene meno la sua ragione d’essere”. Deve guidare, ed essere chiaro. “Se non sei chiaro su lavoro, guerra, lavoro, sicurezza, finisci per rincorrere populismo e demagogia. ‘Sicurezza’, per esempio, non è una parola di destra”. Oggi il Pd fa passare persino Marco Minniti per uomo di destra. “Minniti è stato il più bravo ministro dell’Interno che il centrosinistra abbia avuto. Ha avuto il coraggio di declinarla a sinistra, quella parola, ‘sicurezza’. Sarà banale, ma nessuno lo dice: chi ha paura la sera, il cittadino di destra o quello di sinistra? Tutti e due”. E in quel punto Lotti sembra tornare ministro, nel modo asciutto con cui mette insieme principio e convenienza elettorale: “Se vuoi prendere voti, se vuoi governare, se vuoi rappresentare gli italiani, non regalare parole”.
Qualche settimana fa il Pd ha organizzato in Senato un processino politico a Graziano Delrio, che aveva proposto una legge sull’antisemitismo. Delrio è un riformista, uno degli ultimi. “Non conosco il contenuto della legge, può darsi anche che Delrio si sia mosso in maniera goffa. Tuttavia…”. Tuttavia? “Tuttavia che un dirigente di partito venga messo sotto processo politico per un’iniziativa parlamentare è una cosa che di democratico non ha niente. E’ la stessa cosa che fanno quei giovani democratici che impediscono a Emanuele Fiano di parlare a Bergamo. Cioè non si rendono conto di che cos’è la democrazia”. E qui Lotti allarga il ragionamento, con il riferimento storico che per lui è decisivo: “Dovrebbero ascoltare le parole di Silvano Sarti, un partigiano di Firenze che io ho conosciuto e che ci ha insegnato il vero valore della democrazia e della libertà. Silvano Sarti ha liberato Firenze insieme a tanti partigiani, bianchi e rossi, anche per far parlare Fiano all’università. E allora riempirsi la bocca della ‘Resistenza’ senza conoscerla, o meglio senza applicarne i valori, credo che sia il peggior spot che si possa fare alla Resistenza stessa e alla storia di sinistra di questo paese”.
Non è un’analisi da osservatore esterno, è il punto di vista di chi è rimasto. Iscritto al partito, dice, “non ho mai restituito la tessera”, anche quando conveniva poco esserlo. Gli chiedo allora che cosa pensa del passaggio di Stefano Bonaccini, da leader della minoranza riformista alla maggioranza che sostiene Elly Schlein. “Io non saprei nemmeno cosa dirgli, a Bonaccini. Se non chiedergli: ‘Perché’?”. Bonaccini, spiega, è stato “un grande presidente di regione”. Uno che ha perso le primarie. “Io lo sostenni, e credo che quella fosse la linea giusta”. Il punto, però, non è la sconfitta. “Il problema è quello che succede il giorno dopo, la sconfitta. Secondo me Bonaccini si è sentito rifiutato dal suo popolo”. E’ lì che, dice Lotti, scatta qualcosa. “Quando il tuo popolo ti dice ‘non mi piaci’, può venirti da pensare: allora per piacerti devo andare dall’altra parte? Ma stare in minoranza non significa avere torto. Significa rappresentare una linea, e le persone che quella linea hanno votato”. Lotti, dice, quella scelta l’ha fatta. E’ rimasto nel Pd. Anche dopo che Renzi se ne andò. “Io sono sempre rimasto nel partito perché ho sempre pensato che la forza delle idee venga prima degli interessi personali… Vorrei ricordare che anche la Schlein era uscita dal partito. Anche Bersani aveva lasciato il Pd”. Ed ecco una frase sonora, riferita a Bonaccini ma soprattutto all’attuale leadership del Pd: “L’unità del partito non la mette in discussione chi contesta una linea politica o chi fonda correnti di pensiero che stanno lealmente in minoranza”. L’unità, dice, “la mette in discussione chi va via dal partito”.
Nella saletta in cui parliamo c’è un tavolino basso da caffè tra le sedie foderate di bianco, allineate con un ordine impersonale. Sul tavolo, a faccia in su, Lotti ha poggiato il telefonino. Si accende, vibra, poi si spegne. Succede spesso, ogni pochi minuti. Un paio di volte Lotti risponde, scusandosi. “E’ mia madre, devo organizzare una cosa per mio figlio”. Poi lo rimette giù, il telefonino. Eppure è lì che il discorso cambia passo. Quando si torna a parlare di quello che ha perso, il tono si sposta appena. Non c’è indulgenza, non c’è autocommiserazione. Dice che la tempesta non ha travolto solo la politica. “La mia vita, in quel periodo, è saltata”. Lo dice così, senza aggiungere altro. La separazione dalla moglie, una vita privata che si scompone mentre quella pubblica viene smontata pezzo dopo pezzo. “Quando tutto ti cade addosso insieme, non hai il tempo di distinguere cosa fa più male”. Ma subito dopo aggiunge che, paradossalmente, da quel crollo è arrivata anche una forma di libertà. “Oggi ho il potere del mio tempo”. Gli affetti rimasti, la nuova compagna, i bambini, i genitori, gli amici veri. “Quelli che non hanno bisogno di leggere un titolo di giornale per capire chi sei”. E’ da lì che torna a parlare di giustizia. Non come una questione personale, ma come una ferita politica irrisolta. Dice che il tema non è la riforma in sé, ma il modo in cui il Pd si muove. Gli chiedo di quei dirigenti del Pd che hanno cambiato posizione nel giro di pochi anni. Gli cito Debora Serracchiani come esempio di una torsione: la responsabile Giustizia del Pd era una sostenitrice della separazione delle carriere tra giudici e pm, oggi è una sostenitrice del No al referendum. “Il problema non è nel cambiare idea. Il problema è farlo senza spiegarlo. Io conosco Debora, conosco tanti amici nel Pd, e in questi anni ho visto scelte, cambi di posizione, anche veri e propri salti acrobatici. Non lo dico con spirito polemico, lo dico come dato politico”. Poi aggiunge: “Quando sostieni una cosa in un periodo e il contrario in un altro, perché conviene al capo di turno o alla corrente giusta, qualcosa si rompe. Ed è anche per questo che cresce la disaffezione verso la politica”. A proposito di chi, negli anni, ha cambiato più volte posizione, il discorso torna su Matteo Renzi. Oggi sembra ben integrato nel campo largo, allineato con Elly Schlein. Durerà? “Renzi ha sempre un piano”. Siete ancora amici? “Ci sentiamo molto raramente. Nulla tornerà mai come prima”. Quando ci salutiamo, Luca Lotti resta ancora seduto un momento. Il telefono vibra di nuovo sul tavolino, poi si spegne. Non c’è fretta, non c’è urgenza. Fuori dalla saletta l’albergo riprende il suo ritmo impersonale: le voci, i passi, gli incontri che si incrociano senza memoria. Lotti si alza, infila il telefono in tasca, sistema la giacca. E’ ancora un uomo cercato, riconosciuto, ascoltato. Ma non è più al centro della macchina. Esce così: senza clamore, senza rivendicazioni. Non da sconfitto, non da protagonista. Come qualcuno che ha attraversato una stagione e ora cammina in un tempo diverso, più lento, più misurato. Non è una resa. E’ una cesura.