Ansa
UN GIUSTO PROCESSO A SINISTRA
Tre tabù da affrontare. Perché è tempo di far nascere accanto al Pd un nuovo partito liberaldemocratico
Abolizione delle preferenze, la scelta maggioritaria e la nascita del Partito democratico che ha reso molto più difficile la dialettica interna al centro-sinistra. I tre errori condividono un retroterra comune, rafforzato dalle illusioni di vittoria del 1991 e anch’esso legato al rifiuto di guardare alla realtà
Discutendo in questi anni con persone intelligenti che hanno fatto sul serio politica mi sono convinto che nella sua seconda vita, cominciata all’inizio degli anni Novanta, la liberaldemocrazia italiana – vale a dire i partiti che si riconoscono nella Costituzione – ha fatto tre gravi errori “tecnici” cui non è facile porre rimedio, ma di cui è bene avere coscienza. In ordine cronologico essi sono: l’abolizione delle preferenze (1991 e 1993); la scelta maggioritaria (che ha conquistato la nostra cultura politica, in quasi tutti suoi schieramenti, in quel decennio); e la nascita del Pd, formato nel 2007 unendo i Democratici di Sinistra, eredi indiretti del Pci, e la Margherita, una formazione cattolico-riformista di origini popolari e democristiane.
Li definisco errori tecnici perché, per quanto importanti, non riguardano l’analisi della realtà, dagli anni Settanta sempre più in ritardo rispetto ai tempi in tutti i nostri gruppi politici, un ritardo che genera errori intellettuali ancora più gravi. E parlo di liberaldemocazia italiana in generale perché essi sono stati commessi da politici di quasi tutti gli schieramenti: di sicuro i primi due, ma in fondo anche il terzo, quello del “partito unico”, che oggi riguarda solo il centro-sinistra che nell’errore ha perseverato. Come ha ricordato con onestà Fini, anche il centrodestra commise infatti lo stesso sbaglio nel 2009, quando Alleanza nazionale confluì nel Polo della Libertà, poi sciolto nel 2013.
Parlo però di liberaldemocrazia anche perché è importante ricordare che essa non coincide con la democrazia. La differenza principale è che la prima ritiene che vi siano princìpi superiori alla volontà della maggioranza in ogni momento determinato. Essa ha quindi un grado di “relativismo” inferiore a quello della democrazia, espresso di regola da costituzioni che affermano e difendono quei princìpi superiori. Pur concordando col carattere storico di qualunque cultura umana, le liberaldemocrazie riconoscono perciò che in alcuni momenti e luoghi questa cultura è riuscita a vedere con più chiarezza quanto necessario a una vita più libera e dignitosa, e pur sapendo che i cambiamenti sono possibili, difende il particolare valore di quelle conquiste imponendo speciali restrizioni a chi ritiene necessario modificarle.
L’uso del termine permette infine di ricordare che in Italia non c’è oggi una lotta tra democrazia e fascismo, una visione che ci riporta in un mondo dove, nel nostro paese, della democrazia faceva parte anche il comunismo. Siamo piuttosto in tempi in cui la liberaldemocrazia è insidiata da forze populiste, che spesso si richiamano al popolo e quindi alla democrazia, e che sono nutrite da cambiamenti di grande rilevanza di cui purtroppo non si conoscono ancora – anche perché non li si studia a sufficienza – i motivi precisi. Queste forze illiberali sono presenti in entrambi gli schieramenti, ma sono state finora per fortuna contenute.
I tre errori condividono un retroterra comune, rafforzato dalle illusioni di vittoria del 1991 e anch’esso legato al rifiuto di guardare alla realtà (il caso più clamoroso è la crisi demografica, evidente dai primi anni Settanta ma a lungo ignorata e che oramai tiranneggia anche per questo il nostro futuro). Il progresso sembrò allora a molti aver raggiunto, con successo, il capolinea: quello a cui bisognava puntare sembrava evidente, e questo qualcosa era una democrazia stabile dell’alternanza, alimentata da forze politiche mature contrapposte. Finalmente anche l’Italia poteva diventare un “paese normale”, come dimostravano lo scioglimento del Pci e quello del MsiI e confermava l’“ingresso in Europa”, e entrare così in uno mondo normale, come se una normalità stabile fosse possibile e tutte le nostre esperienze non ci dicessero il contrario.
Questa normalità era identificata col maggioritario (finalmente anche da noi, come nei paesi anglosassoni!) di cui ho già scritto e su cui sarò quindi breve, limitandomi a un solo punto. E’ possibile che il maggioritario sia un sistema eccellente per un paese che vive una fase in cui aumento del benessere e omogeneità etno-linguistica, religiosa o sociale si combinano in modo da far sì che il diminuire del primo sia compensato dall’aumentare della seconda e, viceversa, il venire meno di quest’ultima sia bilanciato dalla crescita. Si tratta però di uno scenario tutt’altro che “normale”, come normale non è il “miglioramento continuo”. E provare a governare un’Europa in declino e con un netto aumento della disomogeneità – entrambe conseguenze inevitabili della perdita di centralità e dell’invecchiamento – con un sistema maggioritario è un errore che si paga. Basta pensare a che effetti può avere (e già ha) la mancanza di rappresentanza di forti minoranze di qualunque tipo, e la deriva provocata dalla perdita di status della maggioranza nativa, sul funzionamento di un sistema “democratico” retto dal maggioritario in condizioni di ristagno come quelle in cui viviamo.
La conseguenza negativa principale dell’abolizione delle preferenze, ispirata anche dal moralismo di una società in crisi che rifiutava di ammettere le sue responsabilità e aveva trovato nella politica (e non nella cattiva politica che ci si era scelti) un comodo capro espiatorio, è stata la trasformazione dei partiti, di tutti i partiti, in dispotismi dei leader. Con le preferenze, magari frutto anche di forme di “corruzione”, ogni politico è in qualche modo almeno in parte padrone dei voti che si è conquistato, e quindi un essere indipendente e dotato di iniziativa. Col nuovo sistema le liste le fanno – in tutti i partiti – i vertici, scegliendo i più fedeli e “tranquilli” e castigando chi discute – vale a dire il coraggio politico – assegnandogli un posto in lista che non garantisce l’elezione. In nome della morale abbiamo quindi rinunciato a una politica viva, al dibattito interno, e quindi irrigidito ancor più un quadro già ingessato dal maggioritario.
La nascita del Pd all’insegna di un generoso ottimismo – ma alla vigilia della crisi del 2008, mentre Putin già dichiarava apertamente le sue intenzioni e per chi aveva orecchie Obama annunciava la fine del rapporto speciale con l’Europa! – ha rafforzato questa tendenza. In particolare, il Pd ha reso molto più difficile la dialettica interna al centro-sinistra, trasformata nella lotta per il controllo del “partito unico”, e favorito la nascita dei Cinque stelle. Il problema lo vide con chiarezza D’Alema che, sia pure per difendere la sua sinistra, si oppose a quella scelta, ma lo videro anche esponenti importanti della Margherita e lo vediamo tutti oggi. Un centrodestra liberatosi dal PdL può lottare diviso e colpire unito. Un centrosinistra con un partito unico, al cui fianco sono nate – per reazione alla fine formale della sinistra – formazioni di sinistra e populiste ormai radicate, è oggi controllato da una sinistra confortata dal dispotismo nutrito dalla fine delle preferenze e priva di un credibile contrappeso autonomo liberale, che tale non sarebbe, neppure se venisse, la forza immaginata da Renzi. Il centrosinistra è quindi diventato sempre meno centro, irrigidendosi sempre di più, e non ha con chi dialogare se non appunto alla sua sinistra e in campo populista.
In generale, a essere indebolita è tutta la politica come capacità elastica di compromesso e navigazione intelligente e informata della realtà, tanto più necessaria nei tempi nuovi e difficili in cui siamo entrati come sonnambuli malgrado tanti e forti segnali. Sarebbe quindi meglio tornare a un proporzionale con sbarramento; reintrodurre in qualche modo le preferenze, magari attraverso primarie interne che lascino alle segreterie solo il controllo di una percentuale ragionevole dei seggi probabili (un controllo che può servire ad assicurare la presenza in Parlamento di visioni non solo locali e a ridurre le possibili derive patologiche della competizione tra candidati dello stesso partito in un contesto in cui quei partiti sono più deboli che in passato); e far nascere accanto al Pd un nuovo partito liberaldemocratico non più solo, ma anche cattolico. Farlo è però molto difficile. Il maggioritario aiuta chi ha il potere, e si scorgono tendenze al suo rafforzamento che potrebbero prefigurare forme di gestione politica diverse dalla liberaldemocrazia e sfortunatamente più adatte ai tempi che viviamo.
L’assenza delle preferenze facilita ai loro vertici il controllo dei partiti. E far nascere un nuovo partito non è facile, né lo è seguire l’esempio del centrodestra, sciogliendo il Pd come fu sciolto il Popolo della Libertà. Qualcosa però si dovrebbe provare a fare, se possibile bandendo il nome “riformismo” che implica il sapere cosa andrebbe fatto, il che, nelle condizioni presenti, sembra ed è un atto di arroganza.