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da atreju
Sentirsi di nuovo “a casa”. Fini alla festa meloniana con Rutelli
L'ex leader dei giovani missini e fondatore di An alla festa meloniana ammette l’errore di aver sciolto il partito e ricorda lo strappo con il Cav. Il confronto con Rutelli, rivale del ’93, diventa racconto di un passato condiviso e dei nuovi equilibri che attendono la politica italiana
Non c’è più l’amarezza dell’esilio nella metaforica Sant’Elena della vita post-politica dopo l’uscita dal Parlamento nel 2013, nella voce di Gianfranco Fini, ex leader dei giovani missini, poi fondatore di An dopo la svolta di Fiuggi, ex presidente della Camera, ex ministro degli Esteri, ex coinquilino di Silvio Berlusconi nel Pdl, ex autore dello strappo dal medesimo e della frase “che fai, mi cacci?” Che ne ha fatto l’icona della ribellione a B. ma anche dell’implosione rispetto agli anni d’oro dei governi di B. Lo sguardo è dritto, mentre, scortato dall’uomo organizzazione di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, Fini fende gli stand di Atreju, festa meloniana nei giardini di Castel Sant’Angelo, e costeggia l’albero di Natale tricolore per entrare nella tensostruttura che ospita il dibattito, “trentadue anni dopo”, con l’ex sindaco di Roma ed ex avversario di centrosinistra Francesco Rutelli, anche candidato premier nel 2001, ex leader della Margherita, ex ministro della Cultura e uomo con cui Fini ingaggiò la battaglia per il primo ballottaggio capitolino nell’anno duro di Tangentopoli, il famigerato 1993. E insomma, questo Fini mezzo scongelato non mostra amarezza perché si sente “a casa”, dice, eppure la malinconia pervade il suo racconto del grande errore – lo dice lui stesso sedendosi sul palco. E l’errore, lo ripete due volte perché i meloniani intendano, è stato sciogliere An. Applausi. Applausi anche per la rievocazione della grande testardaggine che l’ha portato a opporsi più volte al Cav. (“non mi faccio comandare”), per fare giri immensi e solitari (molto studio sugli Stati Uniti del wokismo e poi di Trump) e tornare appunto ad Atreju, dopo 17 anni. La chiama “casa”, e non a caso tira fuori nomi che a Castel Sant’Angelo sono casa al cubo: Arianna Meloni (citata); Giorgia Meloni (anche votata).
Ma lo scongelamento di Fini, a partire dal tono più morbido di un tempo (ammette di essere “emozionato”), resta sospeso nell’aria assieme alle note della canzoncina di Natale e alla musica pop che scandisce le piroette dei pattinatori su ghiaccio della pista poco distante. Che cosa pensa davvero, Fini? Nel pubblico non si vedono i colonnelli dell’epoca dello strappo (Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri), ma passano gli uomini-pilastro della destra-destra romana, Francesco Storace e Fabio Rampelli, il sottosegretario meloniano Andrea Delmastro Delle Vedove, in mezzo a famiglie di militanti di FdI e agli ex ragazzi “under 30 per Rutelli” Luciano Nobili e Marco Cappa, oggi in Italia Viva. Fini ricorda l’exploit di allora e puntualizza: l’endorsement di Berlusconi è arrivato dopo il primo turno. Rutelli racconta la stagione in cui confrontarsi a tu per tu in tv era una novità, dopo decenni di soporifere tribune, e parla da conoscitore della politica oggi fuori dal campo di combattimento, dice, ma anche da genius loci, ché ha appena pubblicato “Roma-La città dei segreti” (ed. Newton Compton), saggio sui “misteri, enigmi e meraviglie di una capitale millenaria” che l’ex sindaco illustra di persona dai social con trench e ombrello in stile Alberto Angela. E mentre scherza (“mi hanno usato come esca per farti tornare qui, Gianfranco?”), delinea possibili terreni comuni di dialogo trasversale sui grandi temi economico-ambientali nell’epoca in cui tutto è cambiato e l’Europa rischia di perdere altro terreno (“il centrosinistra mi deve convincere”, dice alludendo all’urna futura). “Bentornato”, gridano a Fini gli altoparlanti. Non è un ritorno al passato, dicono entrambi. Bisogna rinfoderare la spada come l’arcangelo Gabriele, dice Rutelli. La peste è finita, andata in pace.