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La Corte dei Conti e il governo: due interpretazioni sul Ponte

Giacinto della Cananea

Le motivazioni dettagliate fornite dalla Corte a un mese di distanza dallo stop al ponte sullo stretto, si capisce che ci sono visioni diverse con l'esecutivo, in particolare sul calcolo dei costi del progetto

Un mese fa, ha sollevato polemiche la notizia che una sezione della Corte dei conti aveva espresso un giudizio negativo sulle misure volte alla realizzazione del ponte sullo stretto di Messina. Dopo molte parole che non sono approdate a nulla, finalmente è possibile discutere le motivazioni dell’esito negativo del controllo. Le motivazioni sono dettagliate, richiamano le norme meno recenti, risalenti al 1968, e le iniziative recenti. Mostrano che tra la Corte dei conti e il governo vi è una divergenza sia nel metodo sia nel merito, relativamente al calcolo dei costi.

Nel metodo, si confrontano due opposte interpretazioni sul “come” procedere. Il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha perseguito “l’istanza di celerità”, al costo della mancata o incompleta osservanza d’una serie di regole procedurali. La Corte dei conti ha puntualmente eccepito che non è stato acquisito il parere dell’Autorità di regolazione dei trasporti in relazione al piano tariffario posto a fondamento del piano economico e finanziario, uno dei perni dell’azione governativa. Ha sottolineato, inoltre, la violazione della direttiva dell’Unione europea volta alla conservazione degli habitat naturali, perché si è scelto di procedere in presenza della valutazione negativa espressa dalla commissione competente. Ha segnalato l’inadeguatezza della motivazione fornita. Secondo la Corte i difetti procedurali riscontrati “sono suscettibili di incidere, negativamente, sulla realizzazione dell’opera, una volta avviata”. Quei difetti, quindi, non vanno sottovalutati.

Nel merito, sempre per privilegiare la celerità, il governo ha ritenuto che il comitato interministeriale incaricato di adottare la decisione potesse approvare il piano economico e finanziario, che tra l’altro contiene il costo complessivo dell’opera e le voci di spesa che lo compongono, inclusi alcuni consistenti compensi, senza adeguarlo. All’opposto, la Corte ha ribadito la necessità di tenere nel debito conto le modificazioni “sostanziali, oggettive e soggettive, intervenute nell’originario rapporto contrattuale”, tra cui le clausole che consente al contraente generale di ridurre notevolmente la quota di prefinanziamento dell’opera: un indubbio e significativo vantaggio. Lo richiede un’altra direttiva dell’Unione europea, relativamente alla quale il governo si è limitato a una “interpretazione minimale”, mentre la Corte ha optato per una “più ampia lettura”, coerente con la consolidata interpretazione che i giudici europei hanno dato alla direttiva. Il problema è che ogni valutazione è allo stato attuale “condizionata dall’incerta definizione dei costi dell’opera”.

Non sono rilievi trascurabili perché, nelle democrazie liberali, il ruolo delle istituzioni superiori di controllo – come la Corte dei conti italiana e quella francese o il National audit office inglese – è di assicurare il rispetto della legalità, oltre che dell’efficiente impiego del pubblico denaro. Anche chi ritiene che l’importanza delle infrastrutture di trasporto, dai trafori alpini al ponte sullo stretto, non possa essere valutata unicamente in base ai vantaggi economici di breve e medio periodo non può sottrarsi all’impressione che la fretta sia stata una cattiva consigliera. Il governo farebbe bene a dare seguito alle osservazioni della Corte prima di rivolgersi al Parlamento, cui spetta la decisione finale. Le sue prime reazioni vanno in questa direzione, l’auspicio è che si prosegua senza strappi.

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