Il discorso integrale

L'autorevolezza, il vigore e la redazione scrupolosa dei discorsi. Giulio Napolitano ricorda il padre Giorgio

Nel centesimo anno dalla nascita dell'ex presidente della Repubblica, durante le celebrazioni alla Camera, il figlio di Napolitano racconta: "Ricordo quando Berlusconi nel '94 si alzò dai banchi del governo per stringergli la mano"

Pubblichiamo per intero il discorso pronunciato ieri, martedì 2 dicembre 2025, da Giulio Napolitano, figlio del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, che è stato ricordato ieri alla Camera, a cento anni dalla sua nascita, con la pubblicazione dei suoi più celebri discorsi

 


 

Signor Presidente della Repubblica, signor Presidente del Senato, signor Presidente della Camera, membri del Parlamento e del Governo, Autorità, studiosi, ex collaboratori e amici, a nome della famiglia Napolitano, vi ringrazio di cuore per la vostra generosa partecipazione all’incontro nel centenario della nascita di mio padre qui a Palazzo Montecitorio, in quella che è stata a lungo la sua ‘casa’. 

Rivolgo uno speciale ringraziamento al signor Presidente della Camera per aver voluto celebrare questa giornata; e al Segretario generale, alla Biblioteca e agli autori degli scritti introduttivi (il presidente Casini, la senatrice Finocchiaro e il professor Sorgonà) per lo straordinario lavoro svolto per la pubblicazione dei due imponenti volumi dei discorsi parlamentari di Giorgio Napolitano, in settant’anni di servizio alla Repubblica e alle istituzioni democratiche, dal 1953 al 2023.

È con profonda emozione che prendo la parola - su gentile invito del presidente Fontana - per testimoniare la grande importanza che mio padre ha sempre attribuito al parlare in Parlamento. 

Tante volte, prima da ragazzo e poi da adulto, ho ascoltato dalle tribune del pubblico i suoi interventi da tutte le diverse possibili postazioni previste dal nostro ordinamento che la storia politico-istituzionale del nostro Paese gli ha assegnato: da deputato; da capogruppo; da presidente di commissione; dallo scranno più alto di Montecitorio; dai banchi del Governo; da Capo dello Stato per i due discorsi in occasione del solenne giuramento, ma anche nelle cerimonie extra ordinem da lui fortemente volute di fronte alle Camere riunite per il sessantesimo della Costituzione e il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia; infine, dalla prima fila dei senatori a vita e poi anche di diritto; e da Presidente provvisorio di Palazzo Madama. 

Ogni volta che lo ascoltavo ero colpito dal vigore e dall’autorevolezza della sua voce, dall’attento silenzio che circondava le sue parole, dalla capacità del suo ragionamento di conquistare l’ascolto e talvolta l’applauso non soltanto della sua parte politica (che i resoconti stenografici allora localizzavano “all’estrema sinistra”), ma anche degli avversari, come accadde il giorno – era il 19 maggio 1994 - in cui il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si alzò dai banchi dal Governo per andare a stringergli la mano al posto di deputato e congratularsi mentre l’intero emiciclo si scioglieva in una fragorosa ovazione. L’ho sentito parlare da capogruppo del Pci per criticare i provvedimenti del Governo e avanzare proposte alternative, ma anche per affermare che la funzione dell’opposizione non può consistere “nell'impedire che si decida, nel ricorrere a minacce o a tattiche dilatorie”, e, anche, in una nota e delicata vicenda, per assumersi la responsabilità politica di un grave errore dell’organo ufficiale del suo partito e chiedere pubblicamente scusa agli avversari ingiustamente accusati; da responsabile della politica europea e internazionale del principale gruppo di opposizione per cercare terreni di convergenza con il Governo e dare così maggiore forza alla politica estera italiana; da neo-eletto Presidente della Camera per invitare il Parlamento alla “più difficile delle prove: riformare se stesso”; da deputato di lungo corso per invitare i tanti debuttanti a Montecitorio all’inizio della c.d. seconda Repubblica ad apprezzare a pieno la responsabilità di essere “depositari della sovranità popolare”, senza ridursi a semplici “tifosi” a favore o contro “la squadra di Governo”; da Ministro dell’interno per illustrare e rendere conto dell’azione svolta in materia di tutela dell’ordine pubblico e di contrasto alla criminalità organizzata; da Capo dello Stato per chiamare la democrazia dell’alternanza al “tempo della maturità” e poi per spronare le forze politiche alle “riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”, e ancora per celebrare senza vuota retorica ma con motivato orgoglio la Costituzione e l’unità nazionale; da Presidente provvisorio di Palazzo Madama in quanto senatore più anziano di età per segnalare l’esigenza di rinnovare profondamente la politica e di “rafforzare la partecipazione e l’efficienza della nostra democrazia” e per ribadire il senso di “un comune destino italiano ed europeo”. 

 

Oltre ad ascoltarlo tante volte dalle tribune, ho avuto il privilegio di essere testimone oculare del meticoloso lavoro preparatorio che c’era dietro quei discorsi. Rimanevo sempre colpito da quanto tempo passasse concentrato allo scrittoio a leggere libri e rapporti su cui si documentava. Poi vedevo i fogli bianchi – amava particolarmente quelli piccoli della Camera dei deputati - riempirsi progressivamente dell’inchiostro della sua penna stilografica blu. E ogni tanto capitava che mi facesse vedere qualche passaggio ancora in bozza per chiedermi un’opinione. Erano – credo - l’intensità e la dedizione di quell’esercizio intellettuale e morale che mi spingevano poi a recarmi nelle tribune del pubblico ad ascoltare il suo intervento. Come se avessi vissuto nella bottega di un artigiano e fossi impaziente di vedere l’opera finalmente completa e in azione.

 

Mi sono chiesto tante volte perché per mio padre fosse così importante il parlare in Parlamento, in Aula come in commissione. Sicuramente perché per lui il Parlamento era il tempio della democrazia, perché era convinto della bontà della forma di governo parlamentare scelta dai Costituenti, perché credeva nelle virtù delle istituzioni rappresentative. 

 Ma credo che le ragioni fossero ancora più profonde. 

Sin dall’inizio del suo mandato di deputato eletto nella circoscrizione Napoli-Caserta, sentiva la responsabilità di prendere la parola in Parlamento per dare finalmente voce ai cittadini che rappresentava, a classi e aree del Paese a lungo dimenticate o represse nella storia dell’Italia unita e che sarebbe spettato alla Repubblica finalmente riscattare e proteggere. 

Eppure, anche quando era un deputato dell’opposizione e il mondo al tempo della ‘Guerra fredda’ era diviso in blocchi ideologici contrapposti, non parlava soltanto alla sua parte e in nome del suo popolo. Egli si rivolgeva a tutti, perché il suo scopo era dialogare e ragionare con gli altri, convincere e farsi convincere, e naturalmente criticare - anche duramente se necessario - le scelte degli avversari perché sapeva bene che la lotta politica può richiedere “asprezza”, ma senza rinunciare mai a cercare punti di intesa. 

Coltivare e preservare l’utilità e la civiltà del confronto politico nel luogo deputato del Parlamento è sempre stata la sua priorità. Questa è stata la stringente responsabilità che ha avvertito da Presidente della Camera opponendosi con fermezza alla campagna sul Parlamento delegittimato nella drammatica stagione di Tangentopoli mentre si frantumava la Repubblica dei partiti e impegnandosi in prima persona per assicurare l’efficienza dei lavori parlamentari, al fine di varare le necessarie misure di risanamento economico-finanziario e di approvare - il Presidente Mattarella lo ricorderà bene - gli innovativi sistemi per le elezioni politiche nazionali e dei sindaci. 

Questa è stata l’urgenza che lo ha guidato nell’incarico di Ministro dell’Interno, presentandosi con assiduità in Aula e in Commissione per illustrare la sua azione, raccogliere proposte e suggerimenti, rispondere a domande e critiche senza mai sottrarsi a quelle prove (e mi ha colpito, sfogliando i volumi dei discorsi parlamentari, che proprio gli interventi da Ministro dell’interno costituiscano il capitolo più consistente). 

E questa, infine, è stata la sua costante preoccupazione da Capo dello Stato di fronte all’indebolimento della funzione legislativa e di controllo del Parlamento e alla sterilità delle virulente contrapposizioni tra governi e opposizioni di qualsiasi colore; preoccupazione che tante volte lo ha indotto a rivolgere inviti e richiami all’esecutivo, a riunirsi con i Presidenti delle Camere per cercare soluzioni, a convocare al Quirinale i capigruppo di maggioranza e di opposizione per invitarli al dialogo.  

Giorgio Napolitano era convinto che non c’è grandezza della Nazione, non c’è salvezza della Repubblica, senza la disponibilità, anche nei momenti di maggiore durezza del confronto politico, a parlare e ad ascoltarsi in Parlamento, con reciproco rispetto e con spirito costruttivo nell’interesse generale del Paese.

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