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L'analisi

Le sottili erosioni che minacciano la nostra libertà

Daniela Santus

La resa educativa e l’onniscienza social hanno prodotto la confusione tra opinione e competenza. Tutti possono dire tutto su tutto e tutti hanno ragione, perché la verità è diventata soggettiva, liquida, negoziabile. L’islam politico sta facendo il resto

Arriva un momento in cui capisci che, se proprio non tutto è finito, di fatto sta rapidamente volgendo al termine. Non è un’illuminazione improvvisa, né un evento catastrofico che segna un prima e un dopo. E’ piuttosto la consapevolezza che si deposita lentamente, strato dopo strato, come sedimenti sul fondo di un lago. Ciò che si è sgretolato sotto ai nostri occhi, senza che ce ne accorgessimo davvero, è la nostra consapevolezza del fatto che la libertà – di pensiero, di parola, di voto, di fede o di ateismo – è una risorsa non rinnovabile, come le acque di una falda che, se non te ne curi, una volta divenute salmastre non le puoi più bere. La nostra libertà ha già abbondantemente subito infiltrazioni saline. E queste infiltrazioni sono operate, in parte significativa, dagli attivisti dell’islam politico e salafita cui abbiamo aperto i confini e le braccia, convinti che bastasse la nostra buona fede democratica per trasformare ogni nuovo arrivato in un cittadino illuminista. Per fare un esempio più chiaro: guardate alla Persia degli anni Sessanta – le donne in minigonna all’università di Teheran, i cinema, i caffè letterari – e guardate all’Iran di oggi.

 

Quella trasformazione non è avvenuta per invasione straniera, ma per una lenta erosione interna, per la resa progressiva di una classe dirigente che credeva di poter negoziare con chi non negozia, dialogare con chi vede il dialogo come debolezza. Vedrete il nostro futuro, se non invertiamo la rotta. Anche se, a ben vedere, il problema non comincia con l’islamismo politico. Quello ne è la conseguenza più visibile, il sintomo più acuto. La malattia è più profonda e ha radici che affondano nella nostra abdicazione culturale, nell’abbandono sistematico di tutto ciò che ci aveva reso capaci di pensiero critico, di analisi, di resistenza intellettuale. Abbiamo abdicato agli studi seri, a furia di “piani didattici personalizzati”, “mappe concettuali” e “bisogna capirli, son ragazzi”. Il diploma e la laurea, in Italia, sono diventati diritti umani non negoziabili. Non ovunque certamente, ma quando capita – e capita sempre più spesso – la sconfitta è palese.

 

Abbiamo trasformato la scuola da luogo di formazione a centro di assistenza emotiva, dove il disagio dello studente conta più della sua preparazione, dove bocciare è considerato un trauma da evitare piuttosto che un segnale necessario. Agli esami universitari ho incontrato studenti che affermavano che “Palestina” fosse la capitale dell’Arabia Saudita, che il Tigri e l’Eufrate scorressero in Israele, ma che di fronte alla bocciatura si infuriavano per il fatto di non aver tenuto in debito conto i loro “problemi personali”. Ho letto tesi di laurea prive di consecutio temporum, con errori di ortografia a ogni riga e ho visto quei laureati applauditi dalle famiglie come se avessero appena conseguito un dottorato a Oxford. Fortuna che ora ci pensa l’AI e le tesi sono perfette. Sono una docente non inclusiva? Forse. Ritengo tuttavia che la conseguenza di questa resa educativa non sia solo una generazione meno preparata – quello sarebbe un problema risolvibile – ma una generazione che non sa di non sapere, che confonde l’opinione con la competenza, la sensazione con l’analisi, l’emozione con l’argomentazione.

 

D’altra parte, abbiamo fatto della nostra onniscienza social un vanto. Esperti di calcio che commentano processi, casalinghe che trattano di genocidio, influencer che spiegano la geopolitica mediorientale tra una sponsorizzazione di creme e un tutorial di makeup. Non c’è argomento così complesso da non poter essere ridotto a uno slogan, non c’è questione così sfaccettata da non poter essere risolta con un hashtag. E il problema, si badi bene, non è che la gente esprima opinioni: questo è democrazia ed è sacrosanto. Il problema è che abbiamo smesso di distinguere tra diritto di parola e autorevolezza, tra libertà di espressione e competenza. Tutti possono dire tutto su tutto e tutti hanno ragione, perché la verità è diventata soggettiva, liquida, negoziabile. Abbiamo creduto a ogni bufala, che si tratti di ipotetici morti per vaccino o stravaganti scie chimiche, perché verificare le fonti è faticoso, mentre condividere è immediato. E così ci troviamo in un paese dove quasi la metà della popolazione pare voler credere che Bill Gates voglia impiantarci microchip, dove i No vax organizzano convegni in sale comunali, dove si discute seriamente se la Terra sia piatta. Però agli ebrei si impedisce la parola, come è accaduto a Emanuele Fiano a Ca’ Foscari. Non è folklore, è la dimostrazione che abbiamo perso gli anticorpi intellettuali necessari a distinguere il plausibile dall’assurdo. Ci piace crogiolarci all’idea che chiunque governi sia un ladro o un malfattore, come se non lo avessimo scelto noi, come se la democrazia fosse una lotteria truccata e non il riflesso delle nostre scelte. 

 

Pensiamo alla Germania dove Friedrich Merz sta subendo manifestazioni imponenti per aver espresso una verità che è sotto agli occhi di tutti: ovvero che nel paesaggio urbano si riflette il problema di un’immigrazione incontrollata. Quando gli è stato chiesto cosa intendesse dire, ha risposto: “Chiedete alle vostre figlie, che probabilmente vi daranno una risposta abbastanza chiara”. Non ha dichiarato il falso. Ha solo osato dire ad alta voce ciò che milioni di tedeschi, e forse di europei, pensano sottovoce, sussurrano tra amici fidati, ma non direbbero mai pubblicamente per timore di essere tacciati di razzismo, xenofobia, populismo. La Germania, che più di ogni altro paese europeo ha fatto i conti con il proprio passato, che ha costruito un’intera pedagogia nazionale sulla memoria della Shoah, si trova ora nella paradossale situazione di vedere manifestazioni antisemite per le strade delle sue città, organizzate proprio da quelle comunità immigrate che avrebbe dovuto integrare nei valori democratici e liberali. A Brema, pochi giorni fa, si è svolta una manifestazione pro Palestina impensabile solo alcuni mesi prima. Centinaia di attivisti, per lo più arabi, sdraiati per terra con i sudari addosso, in una macabra messa in scena della morte. Altri che hanno inscenato uno spettacolino teatrale per mostrare come gli israeliani torturerebbero i palestinesi in carcere. Altri ancora che hanno attraversato le vie della città al grido di slogan che, in qualsiasi altro contesto, sarebbero stati riconosciuti per quello che sono: incitamento all’odio.

 

E non c’è possibilità di spiegare la realtà. Non c’è spazio per la complessità, per la storia, per i fatti. Persino chi del conflitto e della realtà mediorientale si occupa da decenni, chi ha studiato, viaggiato, intervistato, ha sempre voluto credere che ci fosse Hamas da un lato e il popolo palestinese dall’altro. Io stessa lo credevo. Una divisione netta, rassicurante. Aver scoperto, dai racconti degli ostaggi israeliani rilasciati, che questi erano custoditi, picchiati e affamati nei tunnel da normali cittadini di Gaza – maestri elementari, professori universitari, gente comune – ha acuito il senso della sconfitta. Non erano solo i miliziani di Hamas. Era la società civile, erano i vicini di casa, erano quelli che in teoria avrebbero dovuto essere i “moderati”. E questa rivelazione ha frantumato un’illusione a cui molti si aggrappavano disperatamente. In Germania, dopo il 7 ottobre – e nonostante gli sforzi enormi che il paese sta facendo per combattere l’antisemitismo – l’islam politico sta avanzando e conquistando consensi. Non si tratta di islam come religione, sia chiaro. Si tratta di un progetto politico totalitario che usa la religione come strumento di potere, che predica la separazione invece dell’integrazione, che vede la democrazia liberale non come un bene da abbracciare, ma come una debolezza da sfruttare. E noi, in Italia, cosa facciamo? Ci giriamo dall’altra parte. Diciamo che non è il momento, che bisogna evitare generalizzazioni, che dobbiamo stare attenti a non alimentare l’islamofobia, che in fondo basta un daspo per allontanare un agitatore, per un anno, da una sola città.

 

Così, mentre ci preoccupiamo di non offendere, mentre ci autocensuriamo per paura di essere fraintesi, mentre sostituiamo Gesù con cucù nelle prossime canzoncine di Natale, l’islamismo – con la faccia pulita e una bandiera identitaria tra le mani – avanza. Conquista spazi, quartieri, istituzioni. Non con la violenza – quella semmai verrà dopo – ma con la pazienza, con la determinazione, con la certezza ideologica. Battaglie sostenute dai nostri giovani ormai privati di valori, che non credono più a nulla se non a quel che altri sono disposti a far creder loro: il genocidio in Palestina, la fame, i perfidi giudei. Il paragone con l’Iran non è esagerato, è un avvertimento storico. Negli anni Settanta, l’intellighenzia occidentale guardava con simpatia alla rivoluzione iraniana, vedendola come un movimento di liberazione anticoloniale e antimperialista. Michel Foucault andò a Teheran e parlò di “spiritualità politica”. Gli intellettuali progressisti europei applaudivano Khomeini come alternativa allo scià corrotto e filoamericano. Sappiamo come è andata a finire. Oggi stiamo ripetendo lo stesso errore, la falda è già salmastra. Se non agiamo ora, presto non ci sarà più acqua dolce da bere. E’ questo il momento. Non domani, non quando avremo più dati, non quando sarà politicamente più conveniente. Adesso. Prima che diventi troppo tardi per fare qualsiasi cosa, se non prendere atto del disastro e raccontarlo ai nostri figli, spiegando come abbiamo perso tutto per paura di offendere qualcuno. Cominciamo da Emanuele Fiano: invitiamolo in tutte le università italiane.

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