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L'intervento
Il futuro di Milano secondo Stefano Boeri
Pensare all’area metropolitana con verde, servizi, connessioni: un modello al plurale. E un progetto di biopolitica metropolitana
Non c’è momento migliore per aprirsi al futuro di quando ci si interroga, con preoccupazione, sul presente. Forse per questo ho pensato di dedicare il mio prossimo corso al Master del Politecnico in Urbanistica a “Milano 2050”. Con i miei studenti, giovani laureati in arrivo da tutto il mondo, vorrei ragionare su tre grandi questioni. Che riguardano sia un futuro lontano e incerto (perché pieno di variabili esogene come il clima, le migrazioni, l’intelligenza artificiale), sia quello che il mio amico filosofo Franco Bolelli chiamava il “futuro istantaneo”, cioè l’idea della Milano dei prossimi anni che mettiamo in gioco nelle nostre azioni e nei nostri progetti quotidiani. Eccone tre, in sintesi.
Allargare Milano
Il “modello Milano”, messo oggi sotto accusa, è un concetto senza geografia. Quando infatti imputiamo a una “piccola” (nella gerarchia delle metropoli internazionali) città di 1 milione e 300.000 abitanti di aver subìto, senza reagire, crudeli fenomeni di “gentrification” e un drastico ricambio di popolazioni insediate (negli ultimi 10 anni, meno 400.000 abitanti presumibilmente in fuga dai costi elevati e più 500.000 nuovi milanesi, presumibilmente agiati ma anche studenti e utenti delle istituzioni sanitarie), non ci rendiamo conto di essere schiavi di una visione ridotta e ridicola della metropoli padana.
La cui geografia, i cui problemi, le cui potenzialità oggi vanno misurate almeno coinvolgendo i 132 comuni dell’hinterland milanese e dunque una popolazione di 3 milioni di abitanti (non più una piccola città, ma una piccola metropoli) cresciuta anche in seguito alle spinte centrifughe dovute al caro-vita del centro.
Ma attenzione: stiamo parlando di un mondo urbano di decine di piccoli centri storici da valorizzare, di chiese e ville storiche e opere d’arte mirabili – siete mai stati alla Villa Arconati di Castellazzo (una piccola Versailles con le sculture del Bambaja) o all’Abbazia di Chiaravalle (con gli affreschi giotteschi e la tomba del grande banchiere Mattioli)?
Stiamo parlando di centinaia di aree dismesse da recuperare, entro cui realizzare migliaia di abitazioni a prezzi calmierati per studenti e giovani coppie, oltre che servizi e attrezzature sociali.
Stiamo parlando delle due aree, la Brianza e la valle dell’Olona, da cui sono nate e vivono le energie imprenditoriali che alimentano la moda e il design italiano e gran parte del nostro export.
Stiamo parlando di una cintura di aree agricole e parchi unica in Europa che, se connessi e trasformati in un grande unico Parco metropolitano, fulcro di una biodiversità sia coltivata che spontanea, darebbero alla piccola Milano comunale e alla grande Milano del futuro un accesso straordinario e democratico alla natura vivente.
E’ nel recupero di questa corona di centri urbani esterni, piuttosto che nell’aggiungere volumi e cemento attorno ai nodi della mobilità dell’attuale comune, che vanno convogliati gli investimenti pubblici e privati e va pensato il futuro metropolitano. Senza alcun consumo di nuovo suolo permeabile e organico. Ma anche senza demonizzare l’idea di una crescita in altezza quando serve a liberare e perimetrare aree verdi e a uso pubblico che altrimenti, come sta accadendo negli scali merci milanesi, finiscono per essere spezzettate e ridotte a francobolli .
Redistribuire ricchezza
Si accusa oggi, giustamente, la piccola, congestionata, intensa Milano stretta nei suoi incongrui attuali confini amministrativi, di non aver saputo orientare verso le sue componenti più fragili almeno una parte di quella immensa ricchezza immobiliare, finanziaria e (attenzione molto importante) di status competitivo, che è stata capace di accumulare negli ultimi 15 anni.
Eppure: se volessimo seriamente pensare a collegare i centri storici dell’attuale hinterland tra loro e con il cuore centrale di Milano (come ha fatto ad esempio Londra) grazie a una rete veloce e sostenibile di trasporti pubblici – bus elettrici e corsie preferenziali, in attesa della metropolitana. Se ragionassimo su quanto va aggiunto (in termini di servizi sanitari, scolastici, culturali, commerciali) a ciascuno di questi centri di raggiera, così come ai quartieri esterni della piccola Milano. Se il futuro “modello Milano” si nutrisse di un’idea finalmente colta di giustizia sociale ed ecologica, se facessimo tutto questo in tempi ragionevoli, potremmo avere nei prossimi anni entro 50 minuti da piazza Duomo un grande arcipelago di isole urbane, ricchissime – tra loro e al loro interno – di servizi e varietà sociale. Dove la giustizia sociale non si misura per “quote” di edilizia convenzionata o per altezze geometriche degli edifici, ma per intensità di compresenza di culture e classi di reddito diverse entro lo stesso borgo, quartiere, centro urbano.
Un arcipelago di isole urbane pedonalizzate e collegate da un “mare” di parchi, aree coltivate, corridoi alberati e verdi che, arrivando ovunque, non solo servirebbe di antidoto ombreggiato alle onde di calore, ma accompagnerebbe la rete delle infrastrutture della mobilità. Il tutto punteggiato da un sistema di scali aeroportuali, atenei e centri sanitari unico al mondo. E da un’agenzia pubblica sulla casa che, più che competere con il privato sulle nuove costruzioni, potrebbe intestarsi il ruolo di mediazione e garanzia tra il mondo bancario e le migliaia di piccoli proprietari che preferiscono Airb&b o il vuoto ai rischi di morosità, liberando così soprattutto nel Comune centrale, nei quartieri storici di Milano, un patrimonio inestimabile di appartamenti a edilizia convenzionata e sociale.
Sprigionare intelligenza
E infine l’occasione, fino a oggi mancata, della connessione delle intelligenze. E non mi riferisco solo ai nove atenei e al loro straordinario mondo vitale (per favore non riduciamolo al numero degli studentati…), ai centri di ricerca sanitaria e farmaceutica, a Mind, alle fondazioni culturali create dall’editoria e dalla finanza, alle grandi istituzioni pubbliche (Scala, Piccolo Teatro, Brera, Triennale) e a quelle private, ma anche alla rete delle biblioteche comunali, ai teatri e perché no ai centri sociali che ancora sopravvivono.
Ma soprattutto, la forza del modello Milano sono le sue reti: quella delle famiglie, storicamente allargate (siano esse nobili o borghesi o proletarie) e sperimentali, in seguito a tradimenti e figli illegittimi, adozioni coraggiose, coabitazioni fluide o forzate dai costi della vita; quella delle imprese, storicamente capaci di rischiare; e quella dell’associazionismo cattolico e riformista, così sostanziale da non seguire le oscillazioni della politica.
Quello che oggi manca a una metropoli cresciuta di colpo e in un corpo troppo piccolo sono pochi grandi temi verso cui far convergere sia queste reti potenti che le energie intellettuali della città. Temi e non solo eventi.
Ne indico uno, che potrebbe unire lavoro e ricerca, benessere e cultura, sanità e design, artigianato d’eccellenza e AI, informazione e cittadinanza attiva: quello della longevità in salute, una nitida questione di biopolitica metropolitana.
Un tema cruciale e oggi socialmente divisivo (anche a Milano le aspettative di vita sono ancora troppo ancorate alle condizioni di nascita), che potrebbe costituire una sfida finalmente da vincere, migliorando la qualità pessima dell’aria e muovendosi con coraggio verso una graduale riduzione del traffico e dell’agricoltura inquinanti. Un tema su cui misurare le politiche urbane di giustizia redistributiva. Ma anche un modo per valorizzare la condizione geografica di Milano: quella di una metropoli di pianura, tra le Alpi e il Mediterraneo, dove si potrà vivere e lavorare, anche da remoto, stando tra la storia, l’arte, la natura e l’inventiva; e raggiungere da ogni luogo il cuore della città centrale in meno di 40/50 minuti. Il “modello Milano” non è una congiura di malfattori, quelli (ahinoi) sono ovunque, ma un progetto sociale metropolitano che va declinato al plurale. Come il suo futuro.