Il racconto

I Boeri, la lotta partigiana, le cene con Berlinguer e Pajetta. Storia di una grande famiglia, di sinistra, e rimossa

Carmelo Caruso

Tre figli, Sandro, il giornalista, Tito, l'economista, e Stefano oggi al centro dell'indagine. Il design, il grande teatro, le amicizie e uno speciale modo di militare che ha permesso a Milano di diventare grande

Una casa, una storia, tre figli: i Boeri. La madre Cini sfidò i fascisti e Gio Ponti, il padre, Renato, partigiano, neurologo, fu arrestato dai tedeschi, mentre il nonno, Giovanni Battista Boeri, fu tra i fondatori del partito d’Azione. Li sposò Ferruccio Parri. Sono passati da via Sant’Ambrogio 14, Milano, la casa dei Boeri, e di Stefano, oggi indagato, l’ex presidente Napolitano, Enrico Berlinguer, Giancarlo Pajetta, e cenavano con i fratelli Sandro e Tito, l’editore Einaudi, Giorgio Strehler, il direttore del Corriere,  Stille, il compositore Luigi Nono. Erano tutti amici di Maria Cristina Dameno, la Cini che in milanese significa la piccina, la picinin. Lavora per 12 anni con Marco Zanuso, il padre del design industriale, il maestro che l’avvisa: “Dove vai? Stai attenta. Non hai coglioni per fare l’architetto”. 


E’ madre, la Cini, e Zanuso le dice: “Peccato che questi figli siano bruttini”. Ha conservato il nome del marito, Boeri, anche quando si sono allontanati. Imparano ad amarsi sul Lago Maggiore, lei staffetta partigiana, lui comandante della settima brigata  Giustizia e Libertà. Nascono in quei giorni le poesie di Renato “Più non torneranno al piano” (Edizioni della Meridiana). Una copia è rimasta in quella casa ed è dedicata alla Cini: “Oggi posso risponderti, amore. R. 14/03/1949”. Quanto può essere feroce una comunità con chi l’ha fatta grande?

 

Prima dell'inchiesta, quando in città si faceva il nome dei Boeri si rispondeva: “Il più modesto di loro suona Beethoven”.  La mamma, la Cini, nasce a Sant’Ambrogio, al civico 23, ed è figlia di un avvocato di sinistra, ma cresce con l’altro, il padre acquisito, Bonaventura Mariani, fabbriciere della basilica di Sant’ Ambrogio, religiosissimo. Il padre di Stefano, Renato si arruola con la Resistenza, e prima di farlo scrive all’esercito, al suo maggiore Faiella, dicendo: “Io mi trovo già presso le armi e la attendo qui in montagna dove l’aria è pura, la salute ottima, e dove si fa l’Italia libera”. Si innamorano come nei libri di Fenoglio (e lo racconta Cristina Moro nel suo dolcissimo ricordo, picinin, “Con assoluta autonomia”, Electa) si confezionano vestiti con la tela dei paracadute, partecipano alla ricostruzione.

 

La Cini  si iscrive al Politecnico, Renato  si laurea in medicina, si specializza in Neurologia. In ogni angolo di Milano c’è un pezzo di Boeri, dei Boeri. Il giardino intorno all’ospedale Besta oggi porta il nome di “Giardino Renato Boeri, neurologo, comandante partigiano e fondatore della consulta di Bioetica”. Sulla Cini è stato girato un  documentario “La Casa di Cini Boeri” ed è della Cini lo studio di Strehler, di via Rovello. Lavora con Aldo Rossi, Ernesto Nathan Rogers e studia con Piero Portaluppi, Ponti, il primo a offrirle l’apprendistato, un altro uomo che prova, invano, a dissuaderla dalla professione: “Perché non dipinge?”.

 

Vivono in via Solferino, ma si spostano nuovamente a Sant’Ambrogio in quella che è chiamata “la casa bianca”, la tenda, questa sì, della sinistra italiana, milanese, dove è possibile incontrare a cena Paolo Grassi, Pajetta, i nipoti russi di Gramsci, cugini della moglie di Elio Quercioli, vicesindaco di Milano, negli anni Ottanta, gli anni di Carlo Tognoli. Il primo dei Boeri è Sandro, il “Boerino” ed è il meno conosciuto dei tre, giornalista scientifico, caporedattore a Panorama e poi direttore di Focus, capace di prendersi in giro. A  Segrate, sede della Mondadori, ricordano che il giorno della sua promozione a direttore, “si era presentato con due foto. La prima, una versione di lui spettinata, l’altra, era la versione da capo, in cravatta. Voleva trasmettere l’idea che non fosse cambiato”. Lo definiscono “Sandro il lieve” ma dei tre è forse il più fantasioso, l’irriverente, come la madre che chiamava i suoi divani “Serpentone”, le poltrone “Bobo” e la sua lampada “Papero”.

 

Si gela il laghetto di fronte alla sede, la pozza d’ acqua dove precipitò una sera il poeta Sereni, e Sandro, dicono, “afferra una bandiera, come fosse l’uomo sulla luna e corre a piantarla”. Poi c’è Tito, l’economista, della Bocconi, l’amico di Francesco Giavazzi e dello scomparso Alberto Alesina, il consulente dell’Fmi, della Banca Mondiale, l’inventore del festival dell’Economia di Trento. Scrive per Repubblica, apprezzato dal vecchio editore, Carlo De Benedetti, che lo indica anche direttore della Fondazione Rodolfo De Benedetti.

 

Tito critica Matteo Renzi ma piace ai suoi economisti, a Tommaso Nannicini, e piace quindi anche a Renzi che lo nomina presidente dell’Inps. Era lo studioso, e sono passati undici anni da allora, “citato novemila volte dai colleghi” e che “ha scritto 47 paper in 47 paesi diversi”. Sono tutti e tre  di sinistra, ma lo sono in tre modi diversi. Sandro è il “dubbioso”, Stefano è il “movimentista”, e si candida alle primarie di Milano, le primarie per fare il sindaco nel 2010, battuto da Giuliano Pisapia, salvo poi diventarne l’assessore alla Cultura. Tito è il “riformista” e denuncia il Pnrr come “ubriacatura collettiva”, e lo spiega anche in un libro con Roberto Perotti “La grande abbuffata”. Nel 2016 si parlava di Tito come possibile nuovo Mario Monti come ora si parla di Stefano, l’architetto, raccontato non più come fosse il genio, che è, quello del Bosco Verticale, ma come un intrallazzone di provincia, l’uomo del “warning” a Sala. Lo avevano già indagato (e assolto) a Norcia per un progetto donato ai terremotati, “ve lo dono per ricominciare”. Di Boeri non si ricordano, perché non ci sono, gli edifici concentrazionari, quella spaventosa edilizia popolare, e di sinistra, spacciata come casa per tutti che ha devastato Palermo, Catania, Napoli, Roma. Vittorio Gregotti, l’altro grande architetto di Milano,  prima di morire, diceva del suo Zen di Palermo che era una “tragedia”, “un esperimento alla Mao” e che a volte “il crollo è meglio della costruzione”. Gli è andata meglio di Boeri, il figlio della Cini, iscritta al Pci, la “compagna Cini”. Beppe Sala quantomeno è stato difeso, in ritardo, dal Pd, Boeri no. Al di là dell’indagine non gli si perdona, e a sinistra, di aver progettato la casa dove sono andati ad abitare i riccastri milanesi, anziché aver immaginato l’ennesima scatola di cemento armato, un altro dei tanti cancri urbanistici italiani. E’ rimasto prigioniero della sua opera più bella, la più libera, come quella della madre, la Cini, che chiamò la sua, la più intima, la  “Casa Bunker”.   
 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio