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Imbarazzi
Passa la separazione delle carriere. Il vecchio Pd, un tempo favorevole, si divide in tre
La riforma è passata senza sorprese con i voti della maggioranza, ma il centro dell’attenzione è rimasto ai banchi dell’opposizione, dove ciò che si è visto davvero è stato un esercizio collettivo di giustificazione: agli altri, ai cronisti, a se stessi
E’ stato un voto sulla separazione delle carriere dei magistrati, ma il titolo vero, ieri a Palazzo Madama, poteva essere: “Come te lo spiego adesso?”. La riforma è passata con i voti della maggioranza, ma il centro dell’attenzione è rimasto ai banchi dell’opposizione, dove si è recitata una pièce in più atti: l’interpretazione di ciò che si era detto ieri, la reinterpretazione di ciò che si dice oggi, e la previsione ragionata di ciò che si potrà dire domani.
A votare a favore della riforma, coerente con se stesso, nell’opposizione, è rimasto il solo Carlo Calenda: ieri favorevole da ministro del centrosinistra, oggi da senatore di minoranza. Gli altri hanno percorso sentieri più tortuosi. Il Pd ha votato contro. Più di una frizione, più di un distinguo. “Siamo contrari al metodo”, diceva Sandra Zampa prima del voto. “Il merito è un’altra cosa”, spiegava Anna Rossomando. Un dossier acceso, costellato di sottoscrizioni, quello sulla separazione delle carriere. Nel 2019, durante il congresso del Pd, la mozione di Maurizio Martina diceva che “il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Tra i firmatari c’erano Alessandro Alfieri, Lorenzo Guerini, Graziano Delrio, Vincenzo De Luca e Debora Serracchiani. Ma in Aula ieri, quei nomi, tra i quali diversi senatori e l’attuale responsabile giustizia del Pd (Serracchiani), pesavano di un’eco diversa.
Dario Franceschini ha detto che il dialogo con la maggioranza è mancato “per responsabilità della destra” e che così non si poteva procedere. Poi ha azzardato: “Il referendum sulla riforma vedrete sarà il Papeete di Giorgia Meloni”. L’immagine è rimasta sospesa per un attimo in Aula. E’ forse anche per questo che Delrio, con tono più dimesso, ha commentato: “Non sono tanto sicuro che stavolta l’operazione di farli cascare sul referendum funzionerà”. Forse perché, come dice il ministro dei Rapporti col Parlamento Luca Ciriani: “Alla fine non sarà un referendum sul merito, ma sul funzionamento della giustizia. E la giustizia non funziona. Dunque lo vinceremo”.
Anche Matteo Renzi ha ascoltato Franceschini e poi, fuori dall’Aula, ha sussurrato: “Dario è sempre stato con i magistrati. Anche quando governavamo insieme. Se c’era tensione, diceva: ‘Invece di dargli trenta giorni di ferie diamogliene cinquanta, così non rompono le balle’”. Poi l’ex segretario del Pd ha aggiunto: “Io oggi mi sono astenuto, sì, e ho avuto gioco facile a sostenere che con questi della destra non ci si può stare. Avete visto La Russa che mi toglieva la parola? Un bifolco istituzionale. Mi hanno aiutato a uscire da una impasse”. Ecco. L’impasse. O l’imbarazzo. D’altra parte erano tutti lì, ieri: Renzi, Delrio, Calenda e gli altri. Un tempo nello stesso partito, oggi in tre partiti diversi, con tre voti diversi. Solo Calenda è rimasto sulle posizioni di allora. Gli altri, ciascuno a modo suo, sembravano condividere una certa difficoltà nel dover prendere le distanze da una riforma che in passato in tanti avevano sostenuto.
Il momento più fotografato della giornata, per il resto senza pathos, è stato il flash mob dell’opposizione. I senatori del Pd si sono alzati in piedi brandendo fotocopie dell’articolo 104 della Costituzione stampate al contrario. Una coreografia mutuata dai 5 stelle, tra gesto simbolico, dottrina e un certo gusto per l’inquadratura. Ma nella foto d’insieme, più che un allarme democratico sembrava la prova generale di una recita scolastica.
Alla fine la riforma è passata, senza sorprese. Ma ciò che si è visto davvero è stato un esercizio collettivo di giustificazione: agli altri, ai cronisti, a se stessi. E forse il titolo giusto resta quello: “Come te lo spiego adesso?”.