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mercato del lavoro

Referendum inutile, disagio ignorato

Massimo Taddei

Oggi siamo più stabili, ma anche meno pagati. E mentre il Pd rincorre vecchie battaglie i lavoratori non lo seguono più

Il fallimento del referendum sul lavoro ci fa capire come il sindacato e l'intera opposizione facciano fatica a raccogliere le istanze dei lavoratori, che non hanno risposto alla chiamata alle armi del referendum. Il problema, a mio avviso, è che i lavoratori stessi non sono consapevoli dei problemi che attanagliano la loro carriera e che portano a grandi insoddisfazioni sul lavoro. La discussione si concentra infatti quasi sempre sul basso livello dei salari, sull’alto livello di precarietà o sul mancato rispetto del diritto dei lavoratori, ma questi fattori non sono cause, bensì conseguenze. Conseguenze di un’economia che non si innova e sta diventando troppo vecchia e fa fatica ad adattarsi alle necessità della contemporaneità. La bassa partecipazione al referendum è indicativa di un generale scollamento del centro sinistra dai bisogni delle persone, dai bisogni del “paese reale”. La battaglia contro il Jobs Act, contro la precarietà e contro la scarsa sicurezza sul lavoro ne sono una conferma. I tre quesiti volevano agire su quelli che erano considerati tre totem nella lotta al Jobs Act: il ritorno del diritto al risarcimento e al reintegro in caso di licenziamento, la limitazione dei contratti a termine, e una maggiore responsabilità nei grandi appalti. In effetti, però, non sarebbero stati rilevanti e, anzi, in alcuni casi avrebbero potuto peggiorare le cose.

In particolare, l’attacco alla flessibilità, dalla minore aleatorietà nei processi sul lavoro alla possibilità di assumere senza una causa specifica a tempo determinato, è in realtà controproducente e i sindacati dovrebbero saperlo benissimo. La maggior parte degli studi mostra che a una maggiore flessibilità sul mercato del lavoro, entro un certo limite, è associata una maggiore disposizione alla crescita economica. Questo perché il mercato del lavoro più flessibile aumenta le opzioni a disposizione degli imprenditori e dei lavoratori, abbassando i cosiddetti “costi sommersi”, ossia il prezzo da pagare, sia esso in termini monetari o di altro tipo, per lasciare il proprio posto di lavoro. Per esempio, moltissimi lavoratori sono sottoposti a patti di non concorrenza, spesso illegittimi, che limitano la mobilità: se decidessero di spostarsi, perderebbero la possibilità di lavorare in un’altra azienda nello stesso settore. Questi costi possono anche esistere a causa di vantaggi normativi, come il contratto a tempo indeterminato: nel momento in cui si decide di accettare un contratto a tempo indeterminato, l’incentivo a non lasciare più quel lavoro sarà molto forte perché difficilmente qualcuno ci offrirà una tutela di quel tipo. Anche nel caso in cui un potenziale nuovo datore di lavoro ci approcciasse, cambiando perderemmo almeno in parte i benefit accumulati con l’anzianità di servizio.

Allo stesso modo, un potenziale imprenditore che volesse provare a scommettere su di noi sarebbe costretto a offrire condizioni  vantaggiose, ma anche  rischiose per lui: come faccio a essere sicuro che un dipendente che assumo  a tempo indeterminato sarà performante  in futuro? Non si tratta necessariamente di un fannullone, ma magari le sue competenze non si incastrano  con quelle richieste per il lavoro. Oggi il datore di lavoro si trova di fronte a questo dubbio e per quanto questo si traduca poi in un vantaggio per il lavoratore una volta che viene assunto, è anche una forte barriera che riduce la fiducia tra lavoratore e datore di lavoro e che rischia di chiudere porte in faccia a lavoratori volenterosi, per cui però nessun imprenditore se la sente di rischiare. Così, oggi, i lavoratori hanno un primo vero grande problema: se non sono a loro agio nel posto di lavoro, non hanno alternative per andarsene. E questo accade anche, ma non solo, a causa di alcune tutele dei lavoratori stessi. Non a caso, l’anzianità media con un singolo datore di lavoro in Italia è di 140 mesi, ben 20 in più rispetto alla media Ue. Siamo più stabili, ma anche meno pagati: secondo uno studio su dati statunitensi, chi ha cambiato lavoro almeno una volta tra il 2020 e il 2023 ha visto il proprio salario crescere quasi del doppio rispetto a chi ha mantenuto lo stesso impiego. Così, gli scarsi incentivi alla mobilità fanno sì che i salari siano al contrario più bassi, perché nessuno si prende il rischio di assumere e rendere il mercato più dinamico. In un paese in cui la mobilità del lavoro non esiste, non è difficile capire perché i lavoratori stanno male. E non per i temi su cui abbiamo votato pochi giorni fa.
 

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