Foto Getty

Voci e racconti

Torino, capitale dell'odio antisemita. Inchiesta sulla città diventata la culla del fanatismo politico

Giulio Meotti

“Librerie sioniste” incendiate, squadrismo contro gli “autori sionisti”, professori ebrei minacciati e studenti ebrei aggrediti (ma i dirottatori di aerei sono benvenuti). Il conformismo dell’odio

E’ iniziata con un rogo di “libri sionisti” ed è finita con l’assalto agli “autori sionisti”, mentre fra gli stand della Fiera del libro facevano mostra di sé i poster di “Kill Bibi” (Netanyahu). D’altronde per Angelo d’Orsi, accademico dell’Università di Torino, “Israele sta perdendo il diritto di esistere”. Non a difendersi, a esistere. Era iniziata con una scena che si sperava di non dover più vedere in Europa. Aprile 1988, un anno prima che “I versi satanici” di Salman Rushdie venissero bruciati nelle piazze inglesi e nelle librerie californiane. Una molotov fu lanciata contro la vetrina della libreria torinese Luxemburg. Furono incendiati due scaffali di libri. La prima telefonata alla Stampa a nome del “Gruppo anarchici rivoluzionari”: “Viva l’Olp”. Poi una telefonata all’Ansa: “Abbiamo attaccato la libreria del sionista Pezzana, centro camuffato del Mossad”. Angelo Pezzana, titolare della Luxemburg, intellettuale e giornalista omosessuale, fondatore di Italia-Israele, non faceva mistero di ospitare  intere sezioni di cultura e letteratura ebraica e sionista. Intervenne Norberto Bobbio: “Sono forme di nazismo e bisognerebbe avere il coraggio di dirlo”. Di quel coraggio resta poco a Torino. 

Angelo Pezzana non nascondeva la militanza per Israele e la democrazia al fianco di Marco Pannella. Avevano già imbrattato i vetri della libreria (“Pezzana, sporco sionista”). E c’erano stati manifesti in cui Pezzana (che non è ebreo) veniva raffigurato col naso adunco delle caricature antisemite. Giovani “autonomi”, i genitori di quelli che oggi hanno reso Torino tristemente nota come la capitale dell’odio, organizzarono una “giornata di boicottaggio” davanti alla libreria, invitando i clienti a non entrarvi e diffondendo slogan come “basta coi pompelmi Jaffa e i libri di cultura ebraica”.

Quel pomeriggio via Accademia delle Scienze fu tappezzata da manifesti scritti a pennarello su fogli di propaganda di Democrazia proletaria, che disse poi che quei manifesti erano stati rubati. La vedova di Primo Levi, Lucia, disse: “Pezzana era amico di Primo. Se mio marito fosse vivo avrebbe sicuramente qualcosa da dire su quanto sta succedendo a Torino, in questi giorni”. Erano anni in cui in tedesco era stato scritto “Qui abita un ebreo” sulla casa del figlio di una ex deportata, Lidia Rolfi. “Jude”, invece, sulla casa di Marcello Segre.

Racconta al Foglio Pezzana: “Ho fondato l’Associazione Italia-Israele nel 1985, ma tutte le cose che avvenivano lì sono sempre state limitate a Torino, per non cadere vittima della violenza. C’è sempre un limite a Torino che non si deve oltrepassare, per paura. Le auto della polizia oggi sono davanti alla comunità ebraica. Sono appena stato al Salone, ho visto gli stand dei grandi editori, con tante esibizioni palestinesi, ‘Palestina’ qui e là, mentre la direttrice è una persona perbene, Annalena Benini. Hanno inventato le etichette adesive ‘questo prodotto uccide’ da mettere sui libri. Sono organizzati e benvoluti da una certa intellighenzia torinese”.

 

            

 

In città capita che il volto e il nome di Pezzana siano additati. “Le colonne di Via Po sono state imbrattate con i volantini col mio volto e nessuno è mai stato arrestato. Anche la polizia a Torino è nelle mani della politica, cerca di fare qualcosa ma è come se fosse frenata. Torino è una città che presto, temo, sarà a maggioranza islamica”. Ancora nel 2016. “Le cartacce che ospita la sua bottega di merda prenderebbero fuoco molto facilmente. Questi posti andrebbero bruciati con il ratto dentro”. La “bottega” era la Luxemburg. Il “ratto”, manco a dirlo, Pezzana. Alessandro Galante Garrone, sulla Stampa, aveva scritto che quando una libreria finisce sotto attacco non è mai un buon segno per la democrazia. Ma le minacce erano state sottovalutate. Era iniziata con un rogo di libri ed è finita con l’assalto ai loro autori. “Quando mi sono recato al Salone del Libro per presentare il mio libro ‘La cultura dell’odio’, in cui racconto come è nato l’odio nei confronti d’Israele nel mondo della cultura, era già previsto che ci sarebbero stati disordini” racconta al Foglio Nathan Greppi, giovane autore e ricercatore. “Nei giorni precedenti, l’associazione ‘Intifada Studentesca Torino’ aveva invitato i sostenitori a protestare. Mi sono sentito con la casa editrice e i due relatori, il presidente della comunità ebraica Dario Disegni e lo storico Claudio Vercelli, per capire come procedere”.

 

          

 

Se i due relatori, dopo aver sentito la Digos, hanno scelto di non presentarsi a causa dei potenziali rischi, Greppi e il suo editore Ezio Quarantelli hanno deciso di andare al Lingotto. “Disegni ci aveva proposto di spostare la presentazione nella comunità ebraica, in modo da essere maggiormente protetti, ma non volevo piegarmi alle intimidazioni di una minoranza violenta. A maggior ragione visto che, negli stessi giorni, una sopravvissuta al massacro di Hamas era in Svizzera a rappresentare il suo paese all’Eurovision: se Yuval Raphael è riuscita a trovare questo coraggio nonostante l’esperienza traumatica che ha vissuto, io non avevo il diritto di essere da meno”. Torino è un portale sul futuro se non si mette un argine al fanatismo politico. “E’ triste constatare come si sia arrivati a un punto in cui, in Italia, serva la protezione delle autorità per garantire la libertà di parola” conclude Greppi. “Anche una settimana dopo, quando sono andato a presentare il mio libro presso la comunità ebraica di Vercelli, siamo stati scortati dalla Digos. E la cosa peggiore è che in molti si ostinano a negare la matrice antisemita di questi fatti, nonostante nel caso di Torino abbiano visto venire presi di mira degli studenti ebrei italiani, non israeliani. Dopo il 7 ottobre, gli antisemiti e gli antisionisti sono riusciti a imporre la loro narrazione e oggi si comportano da padroni. Se le istituzioni non cominciano a prendere provvedimenti, a rendersi conto che l’odio antiebraico e antisraeliano è un problema serio, la società italiana finirà per imboccare una strada molto pericolosa”.

 

“E’ triste constatare come si sia arrivati a un punto in cui, in Italia, serva la protezione delle autorità per garantire la libertà di parola”, dice Nathan Greppi

         

Il pericolo è scritto sui muri dell’Università di Torino. “Mangione libero”: a Palazzo Nuovo spunta la scritta a sostegno dell’omicida di Brian Thompson, l’amministratore delegato di UnitedHealthcare (il 41 per cento dei giovani che vanno al college in America giustifica l’omicidio di Thompson). All’Università di Torino, appena un mese dopo il pogrom del 7 ottobre, hanno chiamato a parlare Leila Khaled, l’ex terrorista protagonista di due dirottamenti di aerei di linea nel 1969 e nel 1970, membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, organizzazione classificata come terroristica dall’Unione europea, e che destabilizzò la Giordania, facendola precipitare in quello che è passato alla storia come “Settembre Nero”.

Un gruppo di “attivisti antisionisti” ha allestito un fantoccio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in veste di macellaio davanti alla sinagoga in piazzetta Primo Levi. A Torino intanto al comune, prima città d’Italia, si faceva lo “sciopero della fame per Gaza”, mentre non si è vista manifestazione di solidarietà per gli israeliani uccisi e rapiti, compresi i fratellini Bibas. In piazza San Carlo, un vigile del fuoco, intervenuto per rimuovere una bandiera della Palestina dal monumento dedicato a Emanuele Filiberto, l’ha sventolata tra gli applausi. E se i licei torinesi partecipano alla “camminata per Gaza”, a gridare “Palestina libera”, quella dal fiume al mare, sono anche i bambini delle elementari.
Scrive sulla Neue Zürcher Zeitung l’accademico inglese Edward Kanterian che “durante la guerra di Gaza del 2014, Gianni Vattimo desiderava ‘sparare ai sionisti’ e chiese che gli europei acquistassero missili per Hamas
. Quando Vattimo morì, il 19 settembre 2023, Hamas perse un importante sostenitore dell’intellighenzia europea”. Vattimo nel 2008 organizzò anche il boicottaggio di Israele ospite d’onore alla Fiera del libro. E per protestare contro la presenza di Israele al Salone, l’Università di Torino invitò Tariq Ramadan, nipote di Hassan al Banna, fondatore dei Fratelli musulmani.

 

          

 

Davide Cavaliere, giovane giornalista torinese, ha studiato all’Università di Torino e frequentato il Campus Einaudi. “Qui spadroneggiano i collettivi di estrema sinistra, ‘Progetto Palestina’ e ‘Intifada studentesca’” racconta al Foglio. “Le loro attività comprendono occupazioni di aule, atti di vandalismo, aggressioni verbali e fisiche a danno di tutti coloro che tentano di portare nell’università idee non allineate alla loro rigida narrazione antisionista, terzomondista e ‘anticolonialista’. Il tutto nel silenzio delle autorità accademiche, che non hanno mai preso seri provvedimenti per contrastare questi facinorosi. Salvo alcune eccezioni, i docenti sono portatori di un radicato pregiudizio antisionista. A Torino, dove è forte l’eredità comunista e sessantottina, nonché la retorica ‘dell’impegno’, le istituzioni culturali, come l’università ma non solo, hanno assorbito con una rapidità impressionante la cosiddetta ideologia woke, dominata dalla volontà di stanare e ‘decostruire’ tutto quello che è ritenuto ‘oppressivo’. Israele incarna tutto ciò che questi intellettuali odiano: uno stato nazionale sovrano, dotato di una economia capitalistica e di un’identità radicata nella tradizione religiosa. Avendo chiaro questo aspetto, si comprende la loro ossessione per Israele. Delegittimare quest’ultimo significa squalificare un’intera visione del mondo. Loro vivono già nel loro mondo ideale, post-nazionale e post-identitario, e non possono accettare la presenza di Israele, ritenuto un residuo, una scoria di un passato barbaro e gli ebrei un ‘fossile della storia’, per usare la celebre espressione di Arnold Toynbee. Dopo aver collocato sé stessi sulla riva giusta della storia, negano agli ebrei il diritto ad avere uno stato perché, secondo loro, questo diritto altro non sarebbe che un sopruso dei ‘bianchi occidentali’. In un simile ambiente intellettuale, l’antisionismo prolifera. Poco importa, poi, se gli arabi sono nazionalisti o islamisti, la loro lotta è avvolta nel romanticismo della ‘rivoluzione’ e della ‘liberazione degli oppressi’”.

Vattimo e gli altri intellettuali torinesi hanno avvelenato i pozzi giusti. “La velocità con cui l’intellettualità torinese ha metabolizzato il lessico e le idee del wokeism, riflette un provincialismo inveterato: ci si accoda a ogni banalità purché in odore di ‘progresso’”. Ma c’è anche un altro aspetto: “Guido Ceronetti ricordava che suo padre, vecchio torinese, aveva un principio irrinunciabile, il ‘non disturbare’. ‘Non disturbare’ non significa solo non fare schiamazzi notturni, ma anche non fare rumore con le idee e le parole; ‘non disturbare’ le opinioni consolidate, le consorterie, gli assiomi di una cultura dominante”. Torino è poi una città “amministrativa”. “La mentalità, anche nella cultura, è burocratica” ci dice Cavaliere. “Un’idea, per essere valida, deve ricevere la vidimazione dell’ufficio competente, in modo ufficiale o ufficioso. Nulla è più temuto dell’eterodossia, di tutto quello che si colloca fuori dal ‘consorzio’ intellettuale. Il fanatismo di una certa intellighenzia torinese non si radica solo nell’adesione a ideologie ‘rivoluzionarie’, ma anche nel timore di vedersi messa in discussione la cattedra da cui tiene le sue lezioni di moralità. Un altro aspetto deleterio degli intellettuali torinesi, soprattutto dei professori, è il culto senescente dell’idealismo giovanile, tipico degli adulti infantili, che diventa pericoloso quando i giovani vengono incoraggiati a considerare il loro acerbo e acefalo entusiasmo come universalmente valido nonché positivo. Ricordo, per esempio, quando il rettore, tramite email istituzionale, invitava noi studenti a partecipare alle marce del ‘Fridays for Future’. Il loro obiettivo non è più quello di trasmettere il sapere, ma di modellare generazioni di militanti. Gli interessa allevare seguaci”.

Di professori liberi all’università ce ne sono sempre stati pochi. Uno è Ugo Volli. “Torino è stata una delle città di insediamento delle Brigate rosse” racconta al Foglio Volli, il semiologo che a Torino ha insegnato a lungo e dove è andato in pensione. Al Salone, quando era stato ospite d’onore Israele, Volli fece volantinaggio a favore della libertà di parola. Tornato nel suo ufficio all’università trovò un volantino con minacce di morte sulla porta. Lo misero in un programma di protezione con un numero da chiamare in caso di aggressione. “Qui a Torino fu ucciso nel 1977 Carlo Casalegno, primo giornalista italiano vittima delle Brigate rosse. L’autonomia è stata molto diffusa e pericolosa ed è confluita senza soluzione di continuità nei centri sociali che ancora oggi sono attivi e turbolenti in città. Soprattutto non c’è mai stata volontà da parte di politici e intellettuali di emarginarli. Da quell’ambiente è nato il No Tav e il centro sociale Askatasuna, fondato nel 1996 e ancora in possesso del palazzo occupato, con la piena complicità del sindaco, che ha concluso con questi autonomi un accordo. L’università è stata sempre caratterizzata a sinistra, in particolare le facoltà umanistiche (Lettere e Filosofia ebbe Vattimo come preside).

La situazione è stata in equilibrio per alcuni mandati rettorali ma è degenerata con l’attuale rettore Geuna (in scadenza) che si è schierato con gli autonomi. Io ho sempre trovato molto difficile difendere le mie idee. Già subito dopo il 7 ottobre, Geuna ha accettato le imposizioni degli autonomi. C’è stato un caso in cui hanno invaso il senato accademico per imporre il ritiro dell’università da un bando di ricerca con Israele che riguardava materie assolutamente civili, come le coltivazioni in ambiente arido. L’ateneo ha lasciato che occupassero e che durante l’occupazione facessero entrare a Palazzo Nuovo un predicatore islamico estremista che vi ha tenuto una predica e una preghiera. Gli incidenti recenti sono solo gli ultimi di una lunga serie di analoghe violenze. Bisogna notare che spesso i protagonisti non sono studenti ma professionisti dell’eversione e che alle elezioni studentesche questi gruppi a Torino come altrove ricevono pochissimi voti, in genere meno del cinque per cento, mostrando scollamento dalla base degli studenti. Ma sono appoggiati e coperti non solo dal rettorato ma anche dai quadri intermedi, in particolare dai dipartimenti di studi sociali”.

Quando fu tirata la molotov contro la libreria Luxemburg, un sociologo come Luciano Gallino disse: “Un segno molto brutto, che si spinge oltre la consueta routine di violenza urbana o di episodi teppistici. Non si può liquidare come la solita bravata, insomma, e mi sembra un preoccupante sintomo di fanatismo rinascente cui fanno eco, basta frequentare l’università per rendersene conto”. Già.

L’Università di Torino è stata la prima in Italia a votare una mozione di boicottaggio di Israele e soltanto una docente, la matematica di fama mondiale Susanna Terracini, si è schierata contro. Nell’ottobre 2015, quando Politecnico, Università e il Technion di Haifa tennero il loro primo incontro di interscambio al Campus di Grugliasco, le contestazioni furono a colpi di slogan osceni: “Ladri di terra, criminali di guerra”. Nelle stesse ore, l’Associazione partigiani proiettava il documentario “Israele, il cancro”. E in occasione di una Giornata della memoria, il Campus Einaudi ha tenuto un seminario dal titolo: “Ricordare Auschwitz per ricordare la Palestina”. Al “Festival della cultura alternativa” al parco Ruffini, per un euro si potevano tirare scarpe contro la sagoma del presidente israeliano Shimon Peres, che teneva in mano una stella di David.

 

L’Università di Torino è stata la prima in Italia a votare una mozione di boicottaggio di Israele e soltanto una docente, la matematica di fama mondiale Susanna Terracini, si è schierata contro

         

Ci sono docenti torinesi, come Daniela Santus, che nella bacheca dell’Università ha visto scritto “Santus sionista”. I muri di tre palazzi universitari sono stati ricoperti da collage di sue foto fuse con quella di Netanyahu. Un anno fa ci fu la preghiera islamica del venerdì organizzata all’università. Fedeli musulmani, studenti e studentesse, hanno trasformato l’università in una moschea. “Un jihad compiuto da donne, da uomini da bambini, ognuno con quello che può contribuisce a questa lotta di liberazione che è cominciata dal primo momento in cui i sionisti hanno calpestato quella terra benedetta”. Così l’imam Brahim Baya, con cui i vescovi torinesi non lesinano giornate del dialogo interreligioso. Uomini e donne separate da una rete in una università pubblica? Guai a dirlo, a Torino sarebbe “islamofobia”. Che ora si può denunciare in un apposito sportello comunale.

Poi, tre studentesse con la kefiah sono comparse in un video per Gaza con la scenografia stile Stato islamico. Intanto issavano il loro drappo anche sulla Mole Antonelliana, progettata peraltro come sinagoga: una gigantesca bandiera palestinese a coprirla. E una simile è stata dipinta sul tetto del Politecnico di Torino.

Qualche settimana fa, la “meglio gioventù” torinese è andata a cacciare i giovani ebrei dal Campus Einaudi. E pensare che nel 2005 l’allora sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, disse che “all’università non c’è il clima delle camicie brune”, rispondendo alle dichiarazioni al quotidiano israeliano Maariv dello studente israeliano Amit Peer, secondo cui “alcuni ebrei iscritti all’università preferiscono celare la loro identità”. Una università, che dai tempi di Erasmo da Rotterdam fino ai più recenti di Gobetti, Gramsci e Bobbio, ha sempre fatto della libertà di pensiero la sua bandiera.

Davide Filippi è lo studente dell’Università di Torino che avrebbe dovuto fare un intervento al Campus Einaudi. Purtroppo, non è stato possibile. “All’ultimo minuto la direttrice del Campus lo aveva annullato perché nelle locandine vi era il no all’antisemitismo e il no alla violenza”, racconta Filippi al Foglio. “Usare la parola ‘no’ non era ‘linguaggio inclusivo’. Quindi avrebbe chiesto alla polizia di evacuarci se fossimo entrati in università non avendo la sua autorizzazione. Mentre ai sedicenti gruppi ‘pro Pal’ era stato permesso di organizzare un contro evento. Per pubblicizzarlo avevano usato il triangolo rosso rovesciato, richiamo alla simbologia di Hamas sui nostri nomi come bersagli da colpire e appeso centinaia di locandine per tutte le sedi dell’università”. Questo l’11 marzo. “Da alcuni giorni sui social circolavano locandine di una contro-conferenza non autorizzata dall’università organizzata dal collettivo ‘Intifada studentesca’ e da ‘Cambiare rotta’, l’organizzazione universitaria di Potere al Popolo. Tra le sigle contestatrici sui social è presente anche il collettivo femminista ‘Non una di meno’”.

Entrano in università alle 15.30. “L’aula è già occupata da centinaia di ragazzi che ci accolgono con megafoni e bandiere palestinesi con l’unico obiettivo di non permettere di svolgersi al nostro evento. Poco dopo iniziano le aggressioni verbali con cori come ‘sionisti carogne tornate nelle fogne’ e ‘se non cambierà intifada pure qua’. I contestatori prendono possesso della cattedra e inizia la contro-manifestazione non autorizzata alla quale partecipano due professori. Nel frattempo un enorme striscione per il ‘Nakba Day’ è appeso sopra la lavagna. A un certo punto la youtuber Paola Kafira si alza, mostra il cartello ‘Liberate gli ostaggi’: è circondata, spintonata e il cartello tagliato in mille pezzi”.

In quel momento le aggressioni diventano fisiche. “Iniziano a sputarci addosso. Neanche persone di più ottant’anni che erano venute con noi a sentire vengono risparmiate dagli insulti. Io inizio un dialogo con alcuni di loro su apartheid e genocidio. A Pietro Balzano è strappata la camicia. Il presidente dei giovani ebrei, Luca Spizzichino, è prima percosso sulla kippah con l’asta di una bandiera palestinese, poi gli è sottratto il cellulare e infine strappata di dosso, dal video di dominio pubblico, la spilla gialla per gli ostaggi. Alla professoressa Pacchiana, che avrebbe dovuto essere la moderatrice dell’incontro, viene fisicamente impedito di entrare in università”. La polizia era a pochi metri fuori dal campus e, nonostante i richiami a intervenire, i responsabili accademici le hanno chiesto di restare fuori poiché la contro-manifestazione pro Pal era, a loro giudizio, “pacifica”. Le aggressioni continuano. “Ovviamente non è stato possibile fare l’evento. Poco dopo siamo stati noi allontanati dalla polizia e scortati per evitare il peggio. Questo è avvenuto intorno alle 17, giusto in tempo per andare al Salone del Libro di Torino per contestare il ‘sionista’ Greppi. Li si sentiva darsi appuntamento lì per dopo”. Chiede Filippi: “E’ normale che un evento per denunciare l’antisemitismo e parlare di diritto allo studio non venga svolto per motivi di sicurezza mentre a terroriste palestinesi come Leila Khaled e Miriam Abu Daqqa venga permesso di tenere conferenze cui viene giustificato il 7 ottobre come resistenza?”.

Intanto gli ebrei, ormai poche centinaia e in gran parte anziani, a Torino stanno diventando sempre più marginali. “Fu a Torino che, un secolo fa, venne fondato il primo ‘Salotto sionista d’Italia’, del quale, purtroppo, si sono perdute le tracce” racconta al Foglio Emanuel Segre Amar, già vicepresidente della comunità ebraica di Torino. “Poi penso a quella decina di torinesi, in gran parte ebrei, che nel 1934 osarono opporsi alle elezioni farsa indette dal Duce, per approvare o respingere la lista dei deputati. Mio padre venne sorpreso alla frontiera di Ponte Tresa con un volantino nella portiera dell’automobile sul quale era scritto: ‘Votare no’. Poco prima era entrato a far parte di ‘Giustizia e Libertà’, frequentando l’abitazione di Giuseppe Levi che, unico nel mondo universitario, ebbe come allievi tre futuri Nobel (Dulbecco, Luria e Levi Montalcini). I miei genitori, quando vennero promulgate le leggi razziali, si trasferirono a Gerusalemme, dove io nacqui – posso dire di essere un autentico ‘palestinese’ – e così si salvarono, mentre tanti si illusero, fino a quando non fu troppo tardi; l’altra città a cui sono legato per via delle mie origini famigliari, Saluzzo, ha il triste primato italiano di annoverare il maggior numero di morti durante la Shoah in rapporto al numero di abitanti”.

Finisce la guerra. Ma un certo spirito torinese di quel tempo permane. “E’ il conformismo dell’intellettuale torinese. Colto, certo. Raffinato, senza dubbio. Ma conformista. Non mi riferisco solo all’antico conformismo sabaudo, quello delle buone maniere. Parlo di un conformismo più subdolo. A Torino, l’intellettuale non rompe schemi consolidati. E’ un mondo autoreferenziale, si guarda allo specchio e si compiace del proprio presunto ‘essere avanti’, e se per ‘essere avanti’ bisogna attaccare Israele, allora si aggredisce Israele. Dunque, il dissenso autentico è guardato con sospetto, e colui che alza la voce è bollato come ‘fascista’. Forse è questo il tratto più paradossale della città che fu di Gobetti, di Pavese, di Ginzburg (amico di mio padre), che oggi produce solo burocrati del pensiero. Torino avrebbe bisogno, più che mai, di intellettuali disposti anche a perdere tutto, pur di dire qualcosa di vero”. 

Segre Amar ricorda il periodo della Guerra dei sei giorni, quando il padre, presidente della comunità ebraica, organizzava eventi nella sinagoga principale alla quale partecipava un’enorme folla per esprimere solidarietà a Israele e per donare sangue e soldi per l’allora giovanissimo stato. 

“Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa, non aveva paura a raccontare ai cittadini, venuti ad ascoltarlo in sinagoga, quella che era la realtà dei fatti, ponendo così, forse, le basi per quella che sarebbe stata la sua tragica fine”. Da quel momento tutto è cambiato. “L’aula magna dell’università avrebbe iniziato ad ospitare, con tutti gli onori, personaggi legati al boicottaggio d’Israele che giungevano da tutti i continenti, a dimostrazione delle enormi possibilità finanziarie di questo movimento che, nonostante sia messo all’indice in Europa e negli Stati Unti, ha avuto pieno accesso alle aule universitarie torinesi. Come è molto ben spiegato dal professore americano Gary Wexler, Israele e l’occidente hanno di fronte una organizzazione preparatissima e infiltrata ovunque”. E così si è giunti allo scontro fisico. “E proprio nel momento in cui chi aveva finalmente ottenuto l’autorizzazione di parlare del diritto allo studio e dell’antisemitismo si è trovato a fronteggiare le medesime masse che, nel 1967, venivano definite extraparlamentari, ma che oggi non sono più tali. Siamo sicuri che, ancora una volta, questa situazione non finirà in tragedia?”. 

Scriveva Casalegno, commemorando sulla Stampa nel 1968 i vent’anni d’Israele: “La nascita, la sopravvivenza, le realizzazioni di Israele sono in sé una grande vittoria. Israele, l’unica nazione democratica nata da un’idea religiosa, voluta come rifugio di perseguitati, rimarrà una delle più esaltanti avventure umane, e fin quando non sarà scomparsa la vergogna dell’antisemitismo, come uomini civili ci sentiremo corresponsabili della sua salvezza”. Ora tira invece un’aria meschina di tradimento e di abbandono. Degli ebrei e dell’occidente.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.