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Il diritto all'indifferenza

Le ragioni per non votare al referendum sono tante, e tutte legittime

Alberto Mingardi

Si può pensare che se i quesiti passassero le normative sul lavoro in Italia peggiorerebbero, ma è anche possibile che alcuni percepiscano il “precariato” come un problema che non si risolve a colpi di legge. O che semplicemente non gli interessi nulla. L'astensione non è l’apocalisse della democrazia

Sono due gli argomenti critici sull’istituto del referendum che in questi giorni si vendono meglio, nel nostro rattrappito mercato delle idee. Per il primo, il ricorso alla democrazia diretta sta alla democrazia rappresentativa come le spezie alla cucina. Può impreziosirla, ma solo se ben dosata. I quesiti di domenica sono complicati, i rimandi normativi troppo astrusi. Al popolo non si può chiedere di recitare la parte del Parlamento. Per il secondo, è una furbizia delle classi dirigenti invitare all’astensione. Una democrazia vigorosa è quella in cui tutti si gettano nel campo di battaglia. Mancasse il quorum, domenica e lunedì, vorrebbe dire che neppure gli appelli alla giustizia sociale scuotono le masse apatiche. Il tasso di salute di una democrazia è la partecipazione elettorale. E’ senz’altro vero che, come qualsiasi cosa che riguardi il diritto, il testo dei quesiti non è semplice. Altre cose però sono chiare. Lo è che si vota contro la flessibilità del mercato del lavoro. I tecnicismi sono difficili da maneggiare, ma il messaggio politico è quello. Davvero gli elettori non sono in grado di coglierlo?

La scommessa dei referendari è che lo capiscano, lo condividano e votino di conseguenza. Il che, però, non significa che le cose andranno necessariamente così. Ci sono molte ragioni per non votare. Si può pensare che, se i referendum passassero, le normative sul lavoro in Italia peggiorerebbero. Se chi ragiona così sceglie l’astensione anziché votare no, è per un motivo ovvio: in qualsiasi competizione, chi gareggia cerca la strategia più efficace per centrare un certo risultato. Siccome mobilitare l’elettorato “moderato” è difficile, meglio assecondare la sua propensione a restare a casa. Non c’è strategia che non comporti dei rischi. I giornali, in questi giorni, non si esimono dal rammentare l’andate al mare di Craxi, che tradì una sorprendente sottovalutazione dello stato d’animo del paese.

 

           

 

E’ anche possibile che molti italiani percepiscano il “precariato” come un problema che non si risolve a colpi di legge, o di voto. Che altri siano abbastanza soddisfatti di un ordinamento che vede, oggi, un tasso di partecipazione al lavoro record. Che siano scontenti del proprio salario e non capiscano come i referendum potrebbero farlo aumentare. Che siano disorientati: perché il Pd chiede loro di votare contro una legge, il Jobs Act, che si deve proprio a quel partito? Ed è senz’altro probabile che siano disamorati della politica o che pensino che non sarà una legge a offrire a loro o ai loro figli l’opportunità che attendono. O può darsi che si sentano incompetenti sulla materia in discussione e preferiscano non dare giudizi improvvisati. O che semplicemente non gli interessi nulla: la loro vita e le loro speranze risiedono altrove. Ciascuno di questi atteggiamenti è legittimo. La democrazia non è il sabato fascista. La partecipazione ai suoi riti non è obbligatoria. E’ nei regimi autoritari che l’ossessione del consenso porta a esigere continue manifestazioni di adesione e entusiasmo. Consentire a tutti di esprimersi non significa negare il diritto al silenzio. In una società libera se i partiti che si presentano alle elezioni non mi piacciono nessuno mi obbliga a votarli.

La scarsa partecipazione è un problema per i partiti che vedono assottigliarsi il loro consenso: è giusto che a loro dia qualcosa su cui riflettere. Ma sarebbe ora di smetterla di pensare che l’astensione sia l’apocalisse della democrazia. Benissimo che un pezzo della società si attrezzi per proporre dei referendum ai suoi concittadini. E’ un suo diritto. E’ diritto degli altri accogliere o meno quella proposta. E’ loro diritto restare indifferenti. Senza per questo essere considerati stupidi, plagiati dalla disinformazione, o antidemocratici. Uno dei presunti difetti della democrazia è che considera l’opinione dell’analfabeta tanto valida quanto quella del docente universitario. Le opinioni possono essere fondate o infondate, ben argomentate o male argomentate, questo si decide altrove. La democrazia si limita a rivendicare eguale rispetto per l’opinione dell’uno o dell’altro. Più facile dichiararlo che comportarsi di conseguenza, come dimostra il modo in cui tanti democratici liquidano, sempre, chi vota in modo diverso da loro, e chi non vota affatto.

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