patto della carbonara

De Luca apre a Conte e manda suo figlio Piero a pranzo con lui

Francesco Gottardi

Svanite le invettive di un tempo: il governatore è il primo dem ad appoggiare la manifestazione del M5s contro il riarmo. Mentre a Roma il figlio Piero va a cena con Giuseppe. Cambio di casacca? No, un calcolo che fa il gioco di tutte le parti in causa

Ci eravamo tanto odiati. Ma alla fine s’abbracciamo. Giuseppe Conte e Vincenzo De Luca, l’avvocato e lo sceriffo. Un’intesa politica inedita, lunare, che pure sta prendendo sempre più forma dietro le quinte. Anzi, davanti alle barricate: “La manifestazione del M5s? Certo che la sostengo, arriva perfino in ritardo per quel che mi riguarda”, il governatore della Campania quasi si offende alla domanda, mentre il Pd si contorce nel dubbio amletico – partecipare o non partecipare? È l’unico grande esponente dem che finora ha risposto all’appello della piazza contiana, che sabato 5 aprile si riunirà a Roma contro il riarmo europeo. “Una piazza aperta a tutti”, sottolinea l’ex premier. E infatti la mano tesa arriva da chi – fino all’altro ieri, in ordine sparso – lo chiamava “truffatore mediatico, descamisado, tupamaro”. Salvo poi aggiungere, nel corso di una memorabile invettiva: “Siamo un paese che ha la memoria corta. Ma come diavolo è possibile?” Appunto.

 

Ancora non è detto che De Luca si faccia vedere nella capitale coi pentastellati: a Verona, questo stesso weekend, si terrà il Vinitaly e sarebbe cosa utile oliare pure gli ingranaggi di Zaia – compagno di battaglia su un altro fronte, quello del terzo mandato, su cui la settimana prossima si pronuncerà la Consulta. Ma basta e avanza l’endorsement, il megafono. E a Roma intanto è accaduto un altro fatto notevole: Conte e Piero De Luca, figlio di Vincenzo e parlamentare del Pd, a cena insieme in un ristorante del centro. I due glissano, fanno passare l’incontro per una pura fatalità. Sicuro. Di governo e Campania nemmeno una parolina. Logica vorrebbe questo. Perché per anni De Luca padre ha dipinto l’universo pentastellato come la peggior monnezza del pianeta. “Com’è possibile che un ceto incompetente come il loro arrivi a metà dell’elettorato meridionale?”, incalzava dopo le elezioni del 2018. “Si sono messe in moto forze oscure, soggette a inquinamento camorristico”. E ancora, alla caduta del Conte I: “Veniamo da un decennio di aggressività, linguaggio offensivo, banalizzazione dei problemi. Su questa linea il M5s ha dato un contributo straordinario”. Bersaglio preferito: all’epoca Luigi Di Maio, una catilinaria dopo l’altra: “Doveva fare il carpentiere, mi disturba l’appetito, il solo nome mi provoca reazioni d’istinto”. Roba da Crozza. Quindi è subentrato Giuseppi. Altro copione? Macché. “Coi ciucci non si governa”, ribadiva De Luca nel 2022. Eppure qualcosa ha iniziato a cambiare. “Parlando con molti esponenti grillini mi è capitato di ascoltare anche ragionamenti molti consapevoli, che non avevo ascoltato in passato. E loro intanto sono maturati”, il primo dietrofront, datato fine 2023. Mentre un anno fa, tra i pontieri del precocemente naufragato campo largo – termine che lui aborrisce, la chiama “coalizione progressista” – c’è stato proprio De Luca. Ragion di stato, si dirà.

 

Oggi però è diverso: lo sceriffo chiama i pentastellati a sé e per sé. Mirino dirottato in casa: quelli del Pd diventano dei “miserabili, un gruppo dirigente che è arte povera”, per non averlo difeso sul terzo mandato. La settimana scorsa il presidente, durante un evento di Repubblica, ha denunciato “la campagna di aggressione personale che da due anni subisco dagli imbecilli del centrosinistra”. Non più contiani. E da parte del Movimento, invece, analogo testacoda? Mica tanto. “Noi con De Luca non parliamo”, tagliava corto il vicepresidente della Camera Sergio Costa, in un’intervista al Foglio a novembre. In quel periodo, a Napoli, i consiglieri Cinque stelle avevano pure votato la sfiducia a De Luca “sulla base dei fallimenti del governo regionale”. Insomma, oltre le prove di dialogo ai vertici, il governatore resta impresentabile. E infatti è su questo che s’infittiscono le chiacchiere. Se dalla Consulta arrivano brutte notizie, De Luca ha bisogno di un piano b. Mentre Conte in Campania vorrebbe candidare Roberto Fico, pentastellato e napoletano doc. Un recente sondaggio YouTrend mostra che nell’ipotesi di campo largo – aridaje – il centrosinistra post-deluchiano prenderebbe più del 50 per cento. Ed ecco allora la contropartita per tutti: al M5s il nome di Fico a capo della coalizione locale, al Pd l’appoggio del M5s in tutte le altre regioni al voto, a De Luca la garanzia che il figlio Piero avrà di nuovo un seggio alle prossime politiche. “Cca’ nisciun è fess!”. Chiamatelo patto della carbonara.

Di più su questi argomenti: