Evviva la nazione. Un'idea con cui fare pace
La sinistra la rispolvera a giorni alterni, la destra la dipinge spesso con fanatismo grottesco
Di solito le normali partite di calcio cominciano a emozionare quando l’arbitro fischia l’inizio. In quelle delle Nazionali, invece, lo spettacolo ha il suo squillante inizio quando dagli spalti cantano a squarciagola, tra fiumi di lacrime, l’inno nazionale. Con le magliette della Nazionale, con i colori della Nazionale dipinto sulle facce, tra i pianti, gli abbracci, le bandiere orgogliosamente posate sulle spalle, ogni volta, dal Sudamerica all’Europa, dall’Africa all’Asia al Nordamerica, l’inno cantato in coro è la festa travolgente del ritrovarsi, è il pieno emotivo, è l’appartenenza che canta sé stessa, è l’esplosione dei simboli.
Solo in Italia succede che se Giorgia Meloni usa “Nazione” al posto dello scolorito “Paese” si spalancano le cateratte dell’indignazione
Lì, con la Nazionale, la Nazione indubitabilmente c’è, esiste, non è una costruzione astratta. Non è volgare sovranismo. È che nella Nazione con la maiuscola sono piuttosto le emozioni che esercitano una sovranità illimitata. Solo in Italia succede che se Giorgia Meloni usa “Nazione” al posto dello scolorito, denaturato, esangue “Paese” in auge in tutti i decenni dell’autotabuizzazione post-bellica si spalancano le cateratte dell’indignazione. I più arcigni addirittura arrivano a sostenere che la parola Nazione andrebbe espunta dal testo costituzionale. E si sente dire che anche parlare di “identità italiana” sarebbe solo un brutto segno di involuzione autoritaria, un sintomo di regressione, di esclusione, di arroganza nazionalista, di subalternità a un progetto politico anti-inclusivo, concettualmente discriminatorio: una studiosa di sinistra, Maura Gancitano, sostiene addirittura che “identità italiana è un falso storico, usato dalle destre per giocare sulle paure degli elettori”. Siamo sempre lì: è l’eredità non smaltita del fascismo. E’ il nostro eccezionalismo al contrario. Per via del fascismo e del suo culto imperialista della Nazione a noi sono precluse sine die le stesse parole (anche “Patria” è sospettata a giorni alterni, iscritta nel registro degli indagati lessicali) che ovunque nel mondo, senza particolari problemi, risuonano così cariche di emozione, dettate per così dire da un insopprimibile istinto di orgoglio che non vuole prevaricare nessuno, colonizzare nessuno, aggredire nessuno. Ne usciremo mai da questa morbosa unicità italiana? No, temo: mai.
Per la filosofia Maura Gancitano, “l’identità italiana è un falso storico, usato dalle destre per giocare sulle paure degli elettori”
Però qui da noi succede sempre qualcosa di sorprendente, e anche di vagamente grottesco, e le accorate accuse del giorno prima diventano accorate difese del giorno dopo. E infatti, nella marmellata appiccicosa in cui si sta invischiando il dibattito nazionale accadono cose che trasmettono una sensazione di totale confusione (si vede che nel postmoderno tutto convive con tutto, i giorni pari è così, i giorni dispari l’opposto). Succede infatti che al solo parlare di “autonomia differenziata”, argomento che fa sbadigliare persino più delle dispute sul premierato, le opposizioni scendano in piazza – la Patria è in pericolo, la Patria chiama, stringiamoci a coorte contro la spaccatura dell’Italia, vade retro – agitando da sinistra il tricolore per la prima volta nella storia repubblicana. E che proprio il tentativo un po’ maldestro e circense di coprire in Parlamento con una bandiera il ministro Calderoli abbia poi scatenato quell’indecoroso parapiglia con scazzottate leghiste da far vergognare. Viva il tricolore, anche se la poca consuetudine ha fatto sì che in alcune bandierine esibite in Parlamento da una sinistra poco avvezza a quel simbolo il rosso sia andato al posto del verde e viceversa. Del resto, in passato era così. Ad agitare le bandiere tricolori erano solo i giovani fascisti che per le strade gridavano “Trieste italiana”. Quando nel 1970 l’Italia vinse ai Mondiali contro la Germania 4 a 3, una pietra miliare dell’epopea nazionale, nessuno aveva una bandiera italiana in casa: noi in famiglia ne avevamo una sbiadita nell’armadio, ma era di mio nonno e al centro del vessillo c’era il simbolo sabaudo e nessuno ci faceva caso. Prima del presidente Ciampi, che molto si adoperò per far fare pace alla Nazione con sé stessa, nessuno cantava l’inno di Mameli nelle manifestazioni sportive, oggi bastano i nomi di Sinner o Tamberi o Jacobs a galvanizzare un sentimento nazionale altrimenti depresso.
La sinistra non più comunista si riscopre improvvisamente legata al simbolo nazionale per eccellenza e smette per un certo lasso di tempo la sua posa cosmopolita, cittadina del mondo, sempre intenta a spezzare radici, sospettosa con ogni identità, fluida, leggera, ubiquitaria, on the road, mica come quei rozzi attaccati alla loro (che senso) terra, alle loro (che nausea) tradizioni, ai loro confini (attenzione) confini. L’identità italiana nazionale è negativa per definizione. Ernesto Galli della Loggia, che per la casa editrice il Mulino aveva diretto una collana appunto intitolata “Identità italiana”, invoca un po’ di buon senso: la nostra identità non ha niente di naturale, di “etnico”, di persino di genetico, figuriamoci noi che siamo figli di mille ibridazioni che solo il deputato Vannacci non riesce a vedere. Ma deriva dalla sua storia, dalla sua geografia, dall’“universo fantastico, sentimentale, emotivo” plasmato dai secoli. Perfino, e qui una costola della sinistra come Carlin Petrini di Slow Food, con il suo chilometro zero, con le cose genuine del cortiletto qui a fianco, con i cibi “de casa nostra”, con la torta della nonna, con la sua riluttanza al verbo internazional-gastronomico benedetto dal mercato maledetto, potrebbe persino andare d’accordo con il supersovranismo autarchico-alimentare del ministro Lollobrigida. Ma che fare del Manzoni dell’“una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”?
La Nazione ha una lunga storia, intrecciata con la democrazia, con l’indipendentismo, con l’orgoglio della propria storia
La Nazione ha una lunga storia, intrecciata con la democrazia, con l’indipendentismo, con l’orgoglio della propria storia (talvolta inventata – vedi l’epica non del tutto autentica del kilt – come ha dimostrato lo storico Eric Hobsbawm). Non esistono gli Stati in natura, non esistono i confini in natura, tutto è costruzione, ma per le folle piangenti che cantano l’inno nazionale la Nazione è una seconda natura, è il loro paesaggio, la loro Patria anche se vivono lontani nel vasto mondo. E del resto l’organismo internazionale che doveva riunire tutte le Nazioni indipendenti all’indomani della Prima guerra mondiale e del disfacimento degli Imperi si chiamava Società delle Nazioni. Se si legge un libro stupendo ma oramai introvabile come “Le nazioni romantiche” di Jean Plumyène si capisce il carico emozionale, addirittura mitico e appunto romanticamente appassionato, che fece prendere il volo agli Stati-Nazione. La Francia non avrebbe identità se si cancellassero dalla sua storia le coccarde tricolori della Rivoluzioni e i versi (sanguinolenti e sciovinisti: “Marchons! Marchons! / Qu’un sang impur/ Abreuve nos sillons”) della Marsigliese non ci colpirebbero tanto il cuore come avviene ogni volta che si assiste alla scena di “Casablanca” in cui le note di quell’inno sovrastano le canzonacce degli orridi nazisti nel locale di Bogart. E Garibaldi, e Mazzini, e “La spigolatrice di Sapri”. La Nazione ha dato la stura ai peggiori e più cruenti nazionalismi aggressivi, certo. Il nazismo si chiamava nazionale, certo, però pure socialista, “nazional-socialista”. Ma il nazionalismo indipendentista degli ucraini, le bandiere georgiane sventolate a Tbilisi sono emotivamente irresistibili. I popoli tanto bistrattati e vilipesi lo sanno, e quando agli Europei parte l’inno dell’Ucraina e della Georgia terre irredente e schiacciate dall’invasore o dall’oppressore, parte anche dagli avversari di turno il grido “Putin vaffanculo”. Lì Nazione e libertà fanno un tutt’uno, chi ha qualche dimestichezza con il Risorgimento può intuirlo, sebbene oramai la dimestichezza con il Risorgimento sia appannaggio di generazioni defunte o incanutite, con “Cuore”, i tamburini sardi e tutti gli annessi messi in cantina tra le cianfrusaglie. Fortuna che c’è il calcio a far sventolare una bandiera stinta e ripiegata.
E a proposito di Italia, di popolo e di Nazione fu proprio Antonio Gramsci a rivendicare il nazional-popolare (o meglio, filologicamente più esatto, il nazionale popolare). Pensava, Gramsci, che a differenza di altre Nazioni dove la letteratura si abbeverava di continuo alla fontana del sentimento nazionale e gli intellettuali non facevano troppo i cittadini di un mondo inesistente, in Italia ciò non avveniva, malgrado gli eroici sforzi di un Francesco De Sanctis, cantore di un’Italia letteraria precedente alla stessa proclamazione dello Stato unitario, perché, spiegava Gramsci, gli intellettuali sono “lontani dal popolo, cioè dalla Nazione e sono invece legati a una tradizione di casta”. Non ditelo troppo forte, altrimenti anche Gramsci viene arruolato nelle schiere dei sovranisti, per di più aggressivi e sordi ai messaggi dell’inclusione. Ma Gramsci proseguiva: “Tutto ciò significa che tutta ‘la classe colta’, con la sua attività intellettuale, è staccata dal popolo-nazione, non perché il popolo-nazione non abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a questa attività in tutti i suoi gradi (…), ma perché l’elemento intellettuale indigeno è più straniero degli stranieri di fronte al popolo-nazione”. Ahi, ahi, che lezione postuma all’“elemento intellettuale” dei nostri giorni!
Con un lungo processo omeopatico, il tempio del nazional-popolare, Sanremo, ribaltò i suoi riferimenti storici. Oggi è una trincea
Poi però del nazional-popolare nella sua definizione strettamente gramsciana si scordarono un po’ tutti (“l’egemonia culturale”, quella invece, a sinistra come a destra, la veneravano fino ai nostri giorni, sino allo sfinimento) anche se il Pci il nazional-popolare lo avrebbe messo egregiamente in pratica nelle Feste dell’Unità, con salamelle e salsicce accanto all’opera omnia di Elena Ceausescu, il liscio insieme al rock e ai canti di lotta degli Inti-Illimani. Ma del nazional-popolare non avremmo avuto più notizia se il suo vessillo, nel cuore degli anni Ottanta, non fosse stato esibito da Pippo Baudo in una turbolenta tenzone con il presidente Rai Enrico Manca. Solo che persisteva, soprattutto nel cuore degli intellettuali di sinistra, un’invincibile avversione per l’elemento nazionale (quella per l’elemento popolare sarebbe esplosa dopo, finito il Pci). Persino una canzone come quella con cui Toto Cutugno inneggiava all’italiano vero non suscitò grande entusiasmo (correva voce che Celentano non volesse cantarla), malgrado l’omaggio a Sandro Pertini “un partigiano come Presidente”, perché, spiegano adesso, quel sottolineare “italiano vero”, suonava come un’implicita offesa agli italiani considerati “non veri” cioè gli immigrati. Fatto sta che, con un processo lungo e omeopatico, il tempio del nazional-popolare, lo spettacolo della musica italiana di Sanremo ribaltò i suoi riferimenti storici. Sanremo sembra essere diventata una trincea, l’ultima spiaggia, difesa con veemenza e spirito battagliero dal mondo progressista, mentre la destra nazionalista e sovranista, quella che un tempo si sarebbe sdilinquita con le note di Nilla Pizzi e di Gigliola Cinquetti, guarda Sanremo ogni anno atterrita, con il sospetto che venga fuori qualche bacio gay, qualche arguzia anti-destra, qualche appello alla pace e alla bontà universale (l’esercizio più semplice del mondo per gli artisti di tutto il mondo sempre nutriti di nastrini per qualche Buona Causa). Sanremo campo di battaglia: il tappo nazional-popolare sembra davvero saltato definitivamente.
Poi certo, bisogna capire se al posto degli Stati-Nazione è venuto qualcosa di meglio. In Europa, da questa parte del muro, nel concerto degli Stati nazionali si è costruito un mix miracoloso di società del benessere diffuso, di consolidamento delle democrazie, di un welfare che ha toccato punte di protezione sociale mai raggiunte dalla storia. Ma abbiamo la memoria corta, e ce ne ricordiamo solo quando dobbiamo cantare gli inni prima delle partite e quando si scende in piazza riscoprendo improvvisamente l’imprescindibilità dell’Italia. Poi esiste l’estremismo esistenziale, incarnato con passione militante, di chi vede un attentato all’identità nazionale persino la carne coltivata che molti italiani, quorum ego, sarebbero curiosi di assaggiare e appare felice nelle sagre del vino nostrano, tra i sovranisti per calcolo e non per idealità patriottiche riunite nella Coldiretti che un tempo era l’alleata potente della Democrazia cristiana. O le chiacchiere sul turismo “attrattivo” dove a chi arriva nella nostra Nazione non si dà il conforto nemmeno di un treno che funzioni decentemente lungo i binari. Rigorosamente nazionali.
L'editoriale del direttore