Il ricordo di Aldo Moro, professore oltre che statista, votato al servizio degli altri

Sergio Soave

La sensibilità del leader democristiano verso le persone, le persone in carne e ossa, non solo “la persona” come soggetto costituzionale, la sua attenzione verso gli studenti, la volontà di educarli e non solo di istruirli. Un convegno alla Sapienza

Il convegno dedicato ieri alla commemorazione di Aldo Moro alla Sapienza di Roma ha puntato a dar conto soprattutto della sua attività accademica, svoltasi dal 1963 in quell’ateneo. Proprio il tema del rapporto tra accademia e politica ha caratterizzato molti interventi, che spesso hanno sostenuto la tesi secondo cui è stato il passaggio dall’università di élite a quella di massa a segnare anche una modificazione nelle leadership politiche. In effetti nei primi decenni del Dopoguerra furono centrali in politica i “professorini” riuniti attorno a Dossetti nella Dc, ma anche rilevanti le presenze accademiche nell’opposizione, a cominciare da Concetto Marchesi. 

 

Giorgio Caravale, curatore di “A lezione da Aldo Moro” – un volume edito da Foglio Edizioni e Palombi Editore che raccoglie le testimonianze di Giorgio Balzoni, Giovanni Castelvecchio, Francesco Saverio Fortuna, Fortunato Lazzaro, Valter Mainetti, Franco Tritto – ha spiegato come anche nelle critiche alle produzioni giuridiche del professor Moro, appuntate su una presunta “astrattezza”, in realtà non si comprendeva come la sua lezione fosse quella di connettere anche i più specialistici temi giuridici a una concezione della persona da una parte e a una dello stato dall’altra.

 

La connessione di Moro tra impegno politico e universitario, ha spiegato, è un elemento costante in tutta la sua vita, lo stesso interesse per la politica nacque in lui dall’esperienza nella Federazione degli universitari cattolici già prima della Liberazione. Carvale ha ricordato come il caso di Moro non sia isolato, visto che anche in altri partiti o correnti furono centrali le attività di uomini di cultura impegnati in politica, fenomeno assai ridimensionato nella fase più recente, con effetti negativi in entrambi i campi, come ha spiegato bene nel recente saggio “Senza intellettuali, Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni”.

 

Nella parte dedicata più specificamente all’azione politica di Aldo Moro, si è dibattuto anche vivacemente soprattutto sulla tesi morotea secondo cui l’Italia non era pronta ad affrontare una stagione basata sul bipolarismo e l’alternanza, sul modello delle altre grandi democrazie. E’ stato trasmesso in larghi stralci il discorso di Aldo Moro per convincere i riluttanti organismi dirigenti della Dc ad accettare di formare una maggioranza con il Pci. Interessante è stato l’intervento di Mario Segni, che in quell’occasione era avverso alla proposta di Moro, che ha criticato la sostanza dell’impostazione strategica di Moro che secondo lui puntava a un’intesa con i comunisti una volta che avessero accettato la collocazione occidentale. Il Pci, secondo Segni, aveva solo la strada dell’intesa con la Dc, mentre la Dc poteva fare altre scelte che avrebbero accelerato una crisi del comunismo. E’ quello che poi è capitato, anche a causa della tragedia subita da Moro nei giorni successivi a quel discorso.

 

Il pregio del convegno è stata l’attenzione alla personalità di Moro e alla sua sensibilità verso le persone, le persone in carne e ossa, non solo “la persona” come soggetto costituzionale, la sua attenzione verso gli studenti, la volontà di educarli e non solo di istruirli, per esempio promuovendo già allora, quando non era affatto usuale, visite alle carceri per far intendere agli studenti di Diritto, che si sarebbero poi occupati del sistema giudiziario, della responsabilità che si assumevano. Questa giusta sottolineatura dell’umanità del professore e dello statista non si è però trasformata, e questo è raro che avvenga in occasioni anche celebrative, in una esaltazione acritica delle sue scelte politiche, che sono state invece esaminate con spirito storico, inevitabilmente anche critico. Ne è emersa l’immagine di un uomo che è stato forse il massimo interprete di una fase che è finita con lui. In questo senso la fosca previsione contenuta nelle sue lettere scritte sotto la costrizione brigatista, l’idea che le formazioni politiche non sarebbero sopravvissute a quella tragedia, assume una sua concretezza. Un ceto intellettuale nato nelle università elitarie ha dato vita alla Prima Repubblica, con i suoi caratteri, che non furono soltanto nefasti, di consociativismo. Moro ne fu l’interprete più consapevole e con la sua fine ne cominciò il declino, e non è facile dire se quello che ne è seguito sia stata un’evoluzione o un’involuzione. 

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