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Alla Camera

L'industria del cinema nel question time con Gennaro Sangiuliano

Marianna Rizzini

Che ruolo deve avere lo stato quando si parla di audiovisivo? Quello di facilitatore o quello di "editore"? Tax credit, falsi miti e pericoli spiegati in Parlamento dal ministro della Cultura

Che ruolo deve avere lo stato rispetto al cinema, cinema inteso come settore fondamentale nel comparto industriale dell’audiovisivo? E che decisioni deve prendere, lo stato, in un momento in cui – come hanno ricordato le associazioni di categoria (produttori, distributori, autori, esercenti) in una conferenza stampa al Cinema Adriano, a Roma, qualche giorno fa, citando anche i dati di uno studio di Cassa Depositi e Prestiti – ogni decisione presa a livello governativo ricade su 9000 imprese che danno lavoro a 65mila persone (114 mila se si considerano le aziende connesse), e considerato che per ogni euro investito in audiovisivo tornano indietro 3,54 euro tra ricavi diretti e indotto? Deve essere uno stato che facilita quella che è una vera e propria industria, con meccanismi automatici di sgravi fiscali, o uno stato che si fa editore e sceglie a monte che cosa produrre? Oppure entrambe le cose (e in quale misura)? Questo ci si chiede da tempo e in varie sedi (anche questo giornale si è recentemente occupato dell’argomento) e questo ci si è chiesti ieri, alla Camera, durante il question time con il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano.
 

I deputati di Azione Valentina Grippo (vicepresidente della commissione Cultura a Montecitorio), Elena Bonetti, Fabrizio Benzoni, Antonio D’Alessio e Giulio Cesare Sottanelli hanno posto all’attenzione del ministro i danni potenziali creati dall’incertezza e dalla confusione attorno alla sorte del tax credit, strumento che in altri paesi continua a essere considerato un facilitatore fondamentale e automatico per il comparto. Qualche esempio: la Gran Bretagna vorrebbe alzarlo al 35 per cento, la California ha assegnato qualche giorno fa 152 milioni di dollari in crediti d’imposta per l’audiovisivo, l’Arabia Saudita, oltre ad aver messo in cantiere una sorta di cittadella fatta di studios dove si potrà ricreare qualsiasi ambiente naturale e non, sta studiando ingenti agevolazioni fiscali per attrarre produzioni straniere. E sempre il meccanismo del tax credit per l’audiovisivo è stato un importante fattore di ripresa per la città di Detroit, colpita dalla crisi del comparto automobilistico, e per la città di New Orleans, su cui nel 2005 si è abbattuto l’uragano Katrina. "Che cosa vuole fare il Ministero della Culura?", è stato chiesto ieri dai deputati.
 

Sangiuliano ha risposto: “Al momento le risorse sono invariate, fatta eccezione per un lieve taglio che vale per tutti gli ambiti del ministero per esigenze di finanza pubblica, ma sorprende che delle 459 opere cinematografiche sostenute attraverso il tax credit automatico tra il 2022 e il 2023, oltre 345 non siano mai uscite in sala”. Ma il punto su cui gli operatori del settore, produttori e distributori in testa, insistono, e su cui stanno combattendo una battaglia mediatica e istituzionale, è che detassare l’investimento in audiovisivo, come sottolineato anche ieri durante il question time, non è “un atto filantropico ma un meccanismo di incentivo a un comparto che genera ricchezza”. Detto in altre parole: il fatto che il film abbia questo o quel contenuto, che sia bello o brutto, che provenga dalla mente di uno sceneggiatore di sinistra, di destra, di centro, è altra questione rispetto all’importanza di dare le ali o di non tarpare le ali a un settore moltiplicatore di Pil, e riguarda casomai altri meccanismi di finanziamento statale all’audiovisivo. Soprattutto, è questione altra rispetto all’investimento fatto a monte detassando, investimento su un’industria sensibile all’incertezza sul futuro, visto che ci si muove in un mercato globale e in una scala di competizione globale (al momento le risorse sono invariate, dice il ministro, ma poi?). Mentre si discute, peraltro, grandi gruppi produttivi si sono già spostati o meditano di spostarsi per esempio in Ungheria, paese dove il tax credit è simile al nostro ma dove non esiste dubbio su eventuali mutamenti in corsa. Per paradosso, l’incertezza sulla detassazione potrebbe produrre la fuga di case di produzione sane e la permanenza di case di produzioni non sane, quelle da film con “due spettatori” in sala (che giustamente nessuno vorrebbe dover finanziare).
 

Poter pianificare per essere competitivi sullo scenario internazionale, questo il concetto che guida la richiesta di chiarezza degli addetti del settore. Più che riguardare il dibattito aereo sull’egemonia culturale, sulle casematte culturali della sinistra e sulle campagne di espansione culturali a destra, tutto ciò ha a che fare con il piano reale delle risorse a disposizione delle imprese, della possibile espansione sul mercato, delle nuove frontiere creative. Se si vuole salvaguardare il cinema italiano, dice chi lo fa, si guardi se possibile in questa direzione

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.