Meno lagna, più visione. La svolta che serve alla nuova Confindustria

Claudio Cerasa

Ma conta ancora qualcosa Confindustria? Una nuova guida c’è, ma una nuova direzione non si vede. Perché il sindacato delle imprese ha l’opportunità di dettare una nuova agenda all’Italia

Trovare una guida è importante, trovare una direzione lo è ancora di più. Ieri, lo sapete, dopo un complicato percorso a ostacoli, tra colpi bassi, equilibri saltati, accordi inaspettati e ritiri strategici, Confindustria ha scelto il suo nuovo presidente. Il nome lo conoscete: si chiama Emanuele Orsini, ha 51 anni, è un piccolo imprenditore, fattura circa 60 milioni di euro l’anno, è amministratore delegato di Sistem Costruzioni, di Tino Prosciutti, presidente di Maranello Residence e due giorni fa ha costretto al passo indietro il suo unico sfidante rimasto in gara, Edoardo Garrone, dopo essersi alleato con il presidente di Federacciai, e numero uno di Duferco, Antonio Gozzi. Orsini guiderà Confindustria nei prossimi quattro anni e conferma una vocazione singolare del sindacato degli imprenditori: farsi rappresentare non da un imprenditore in grado di portare un valore aggiunto a quella carica ma da un manager in grado di fare sintesi, capace cioè di mettere insieme sensibilità diverse, in un contesto, come quello confindustriale, dove il compromesso, da anni, vale più della visione.

 

Una guida c’è, dunque, ed è una guida che, curriculum a parte, potrebbe offrire qualche sorpresa positiva, se davvero il mondo della manifattura, che vale un decimo delle esportazioni italiane e che ha avuto un peso determinante nella vittoria di Orsini, riuscirà a tornare centrale nell’azione del sindacato delle imprese. Ma più che la guida, ciò che conta oggi è la direzione ed è la presa d’atto, dolorosa ma necessaria, che il peso specifico esercitato negli ultimi anni da Confindustria, in Italia, è stato timido, titubante, traballante e in alcuni passaggi, non tutti, pressoché inesistente.

 

Sarebbe ingeneroso scaricare sul presidente uscente, Carlo Bonomi, le responsabilità della scomparsa di Confindustria dai radar della rilevanza del paese. Ma sarebbe disonesto non segnalare che nella Confindustria del presente vi sono due non detti grandi come un casa che non possono non essere affrontati per evitare di alimentare ancora la spirale dell’insignificanza politica.

  

Il primo problema riguarda proprio la parola che più si tende ad associare al mondo di Confindustria: rappresentatività. Essere rappresentativi, per il sindacato degli imprenditori, dovrebbe significare una cosa semplice: fare di tutto per rappresentare al meglio le imprese italiane. Nel corso del tempo, però, la rappresentatività di Confindustria è diventata qualcosa di diverso, più limitata, e si è trasformata in una vocazione più minoritaria: rassegnarsi a rappresentare gli iscritti di Confindustria senza preoccuparsi più di tanto delle ragioni che hanno spinto alcuni giganti dell’imprenditoria italiana a uscire fuori dal recinto di Viale dell’Astronomia. Ci sarà pure un motivo se oggi in Confindustria non si trovano giganti come Stellantis (Fiat uscì da Confindustria, giustamente, ai tempi di Sergio Marchionne, quando nel 2011 Confindustria si rifiutò di appoggiare la battaglia di Marchionne per avere un mercato del lavoro più flessibile). Ci sarà pure un motivo se giganti come Luxottica, Ferrero, Renzo Rosso, Ferrari, Nero Giardini, Federalberghi, Amenduni, Azimut Benetti, Ferretti, UnipolSai, Salini Impregilo, Amplifon, Cartiere Pigna, Morellato e Finmeccanica sono fuori da Confindustria (e certamente stiamo dimenticando qualcuno). E ci sarà un motivo se i giganti residui di Confindustria, banche a parte, non sono imprenditori puri ma sono aziende partecipate dallo stato, i cui obiettivi per forza di cose non coincidono necessariamente con quella che dovrebbe essere una priorità per le imprese del nostro paese: alleggerire la presenza dello stato nel mercato italiano. L’incapacità mostrata in questi anni da Confindustria di saper rappresentare un mondo diverso da quello dei suoi associati dipende naturalmente da molti fattori.

  
Ma se dovessimo segnalarne uno su tutti, potremmo dire che il limite vero mostrato dai vertici di Viale dell’Astronomia è quello di essersi specializzati negli anni nella politica della lagna, la cui agenda è in fondo facilmente riassumibile con una formula sintetica: più aiuti chiesti alla politica, più sussidi chiesto ai governi, più sostegno chiesti ai partiti, più incentivi chiesti per le imprese, più tagli al cuneo fiscale richiesti agli esecutivi. Per anni, le imprese associate a Confindustria hanno scelto di concentrarsi unicamente su cosa l’Italia potesse fare per le imprese. La vera svolta di Confindustria oggi sarebbe quella di passare a una fase diversa: chiedersi cosa possono fare le imprese per far marciare ancora più velocemente l’Italia.

  

   

Meno lamentele, dunque, e più fatti, più investimenti, più coraggio, più aggregazioni, più fusioni, più aumenti salariali. Nel 2021, l’ex governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, suggerì alle imprese italiane di dare spazio, nella propria agenda, alla messa a fuoco di alcuni tabù che riguardano il tessuto industriale del nostro paese. Suggerì, giustamente, di “colmare il ritardo rispetto alle imprese delle altre principali economie europee”, diversificando per esempio le fonti di finanziamento (dall’inizio del 2020 a oggi, le emissioni nette di titoli di debito e di azioni quotate effettuate da società italiane sono ammontate a 16 miliardi, contro 101 per quelle francesi), capendo che danno possa essere per l’Italia avere “un numero elevato di microimprese con livelli di produttività modesti”, una “ridotta presenza di aziende medio-grandi”; una “spesa privata in ricerca e sviluppo che resta molto più bassa di quella di Francia e Germania nonché della media dei paesi avanzati”; una “inadeguatezza nell’uso delle nuove tecnologie, formazione interna alle aziende”. Uscire dalla stagione della lagna significa capire quali sono i fattori che “riducono la domanda di lavoro qualificato, generando un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego”, significa lavorare per migliorare la produttività delle imprese, significa spendersi per spingere i governi a essere più coraggiosi non nelle politiche finalizzate all’erogazione dei sussidi ma nelle politiche finalizzate all’implementazione della concorrenza. Meno barriere alle ingresso, meno nanismo industriale, politiche interne per promuovere salari più alti, attenzione alla competitività, all’innovazione, alla concorrenza e alla promozione di un tessuto industriale capace di offrire alle imprese italiane la possibilità di affrontare la competizione internazionale in condizioni meno sfavorevoli rispetto a quelle dei concorrenti.

   

Una Confindustria che si occupa solo di offrire maggiori garanzie ai propri iscritti è una Confindustria che continuerà a muoversi in modo passivo rispetto al mondo della politica, nella preoccupazione magari di non creare problemi a quelle imprese private che vivono di commesse e forniture delle imprese pubbliche. Una Confindustria decisa a occuparsi un po’ meno dei propri iscritti e un po’ più delle imprese italiane è una Confindustria che, oltre a formare una nuova classe dirigente in grado di sostituire la generazione Marcegaglia che aveva scommesso su Edoardo Garrone, dovrà necessariamente passare dalla stagione passiva della lagna a quella attiva dell’ambizione. Trovare una guida è semplice, trovare una direzione no. In bocca al lupo.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.