l'editoriale del direttore

Il lunapark delle opportunità di Roma è nel cantiere più bello del mondo

Cisterne, gru, getti di fango, silos, betoniere. E poi la storia, la burocrazia e i ritrovamenti clamorosi. Un viaggio  

Claudio Cerasa

Secondo silos a destra, questo è il cammino e poi dritto, fino al mattino. C’è un miracolo nel centro di Roma. Un miracolo politico, economico, culturale dove tutto ciò che appare impossibile diventa immaginabile, dove ogni stereotipo sulla città diventa il suo opposto e dove tutto quello che poteva essere fonte di rabbia, di frustrazione, di litigi, di sgambetti, di sprechi, di inefficienze, di dolori diventa una finestra allegra sul domani, attraverso un abbraccio festoso tra passato, presente, futuro, tecnologia, innovazione, collaborazione, quattrini e dialogo tra mondi molto vicini solitamente impegnati a trovare strategie arzigogolate e tafazziane per litigare e non andare d’accordo. Siamo qui, a Roma, a piazza Venezia, tra i famosi scavi della Metro C, ipnotizzati come degli umarèll dentro al cantiere potenzialmente più bello del mondo, a passeggiare di fronte a uno skyline, come direbbero a CityLife, a cui Roma onestamente non era abituata. Se guardi in alto, quando cammini a Roma, i tuoi occhi incrociano di solito la bellezza di ciò che c’era prima che tu arrivassi. Se guardi in alto, quando gironzoli a piazza Venezia, i tuoi occhi incrociano ora una bellezza diversa, che per i romani è più sorprendente di una squarcio nella magia dell’antichità. Cisterne, gru, getti di fango, silos, betoniere, camion, barre perimetrali e poi un colosso ipnotico e possente come una colonna traianea, la star del cantiere: l’idrofresa, un macchinario da 185 tonnellate, alta 24,5 metri, come un palazzo di nove piani, che andrà a infilarsi giù nella terra a una profondità che sarà due volte l’altezza del Colosseo. In tutto: 87 metri. Il mondo sotto piazza Venezia che attende di essere accarezzato dalle guance dell’idrofresa e dalla punta degli scalpelli è un mondo che gli ingegneri e i geometri che spingono i macchinari  sotto terra a una velocità di otto centimetri al minuto hanno scolpito nella propria testa come i chirurghi costretti ad aprire un corpo e a muoversi delicatamente tra gli organi di un paziente.

Quel che si sa è che sotto i cantieri di piazza Venezia, tra i blocchi di tufo, il travertino, gli architrave, i fregi, le pavimentazione stradali, le fontane, le vasche, i basolati, non vi è alcuna traccia del famoso e mitologico e leggendario bunker di Benito Mussolini. Vi è però qualcosa di più interessante, che gli ingegneri ci mostrano indicandoci alcuni punti precisi in una cartina. Strato su strato. C’è la famosa via Lata, strada basolata che partiva dal Campidoglio e che arrivava a via del Corso, tredici metri di profondità, che segnava il termine meridionale della così detta “Saepta Iulia”: una via dove, in passato, vi era la famosa corsa dei cavalli scossi, amatissima dal cardinale Pietro Barbo, che prima di diventare Papa nel 1464 si affacciava da Palazzo Venezia per godersi lo spettacolo.

   

     

Si va giù, ancora, e si trova un’antica strada lastricata di poligoni silicei che va da Palazzo Torlonia alla chiesa di San Marco. Si va ancora giù e si trova una domus medio imperiale con ambiente termale, a tredici metri di profondità. E poi, ancora. Ambienti della prima età imperiale con rifacimenti tardoantichi. Un piano pavimentale rivestito con tarsie marmoree. Una insula del II o III secolo dopo Cristo. Un’aula del complesso degli Auditoria di Adriano. Il sepolcro di “Bibulus”, I secolo avanti Cristo. Strutture in laterizio a filari ondulati (IX secolo). E poi, come in un frullatore di storia, ci sono dei muri in laterizio, delle insule, delle strutture abitative, delle tracce di scale, delle tabernae, dei dettagli dell’epoca imperiale, degli edifici funerari, dei sepolcri e c’è la speranza forse non remota di trovare anche ciò che gli archeologi non hanno ancora previsto: un mausoleo di età repubblicana, magari appartenente alla famiglia Claudia. A un certo punto, racconta uno degli ingegneri, durante una prima fase degli scavi sono stati trovati dei muri affrescati con fantasie egizie. Muri che hanno mandato per qualche ora nel panico i responsabili del cantiere che, smarriti, si sono chiesti: ma che diavolo ci fanno le decorazioni egiziane qui sotto? Panico, ma mistero risolto: erano i sotterranei un po’ pacchiani di Palazzo Torlonia, e gli affreschi saranno esposti all’apertura della metro di piazza Venezia. Sotto il cantiere vivono dunque due mondi diversi, paralleli, intrecciati tra loro. Il primo mondo è quello che abbiamo appena descritto e che illumina un universo lontano. Il secondo mondo è quello che illumina un universo vicino che cerca disperatamente di essere un ricordo del passato. E’ un mondo fatto di altri reperti archeologici che a differenza dei primi i romani vorrebbero pazzamente sotterrare. Un mondo di cavilli, di sofismi, di lentezze e di pratiche burocratiche infinite che per molto tempo hanno trasformato, a Roma e non solo a Roma, l’immobilismo nell’unica forma di legalità consentita e hanno fatto di ogni tentativo di modernizzare la città una minaccia inaccettabile contro lo status quo. Un tempo funzionava così a Roma: aprivi un cantiere, scavavi, trovavi qualcosa di importante e i lavori si fermavano per l’eternità. Oggi potrebbe funzionare così. Si scava, si va in profondità e si va in profondità laddove gli studi testimoniano che non vi sono ostacoli insormontabili. Se si trova qualcosa di piccolo si sceglie se sacrificarlo o no – e a volte qualche piccolo sacrificio è fondamentale per poter andare giù ancora negli scavi e arrivare a profondità solitamente difficili da raggiungere per gli archeologi.

Se si trova qualcosa di enorme, come è successo a Roma a Porta Metronia, fermata Ambaradan – dove è stata trovata una caserma lunga ottanta metri, con gli alloggi dei soldati, due ali laterali, un volume di 1.300 metri quadrati, fondata negli anni dell’imperatore Traiano e completata negli anni dell’imperatore Adriano, un caso praticamente unico di caserma romana, abbandonata poi verso l’inizio del IV secolo dopo Cristo quando vennero costruite le Mura aureliane e quando venne deciso che sarebbe stato pericoloso lasciare una caserma fuori dal perimetro delle mura – in quei casi si può decidere di smontare tutto e di rimontare la struttura da un’altra parte, cosa che è successa in questa fermata della metro, che aprirà entro la primavera del 2025 e aprirà a fianco alla caserma spostata e ricostruita che un tempo non sarebbe stata spostata e  avrebbe costretto a fermare i lavori.

   

       

Mauro D’Angelo, direttore generale del cantiere della Metro C, metro che collega la parte sud-est di Roma con quella nord-ovest, metro che ha ventidue stazioni in esercizio, tre in costruzione, quattro in progettazione, dice che non esiste al mondo un cantiere come questo. Dice che non esiste al mondo un cantiere di una metropolitana che contenga i tesori che si trovano sotto piazza Venezia. Dice che per visualizzare quello che succederà sotto quei silos verdi bisogna immaginare di portare sotto terra un volume grande come l’Altare della patria. Dice con orgoglio che il tunnel sotterraneo che collega la fermata della Metro C dei Fori imperiali, i cui lavori finiranno a settembre e che si trova dall’altra parte del marciapiede rispetto alla fermata B del Colosseo, è già collegato con la futura fermata di piazza Venezia – lo abbiamo visto, scendendo giù lungo tre rampe di scale circondate da pareti dorate che avvolgeranno oltre alla fermata della metro anche un allestimento museale composto da venticinque pozzi arcaici e una fontana dell’epoca Flavia. Dice, ancora, che tra i soggetti che animano la burocrazia romana c’è una consapevolezza che smuove tutto e che è legata al fatto che questo cantiere è un’occasione unica non solo per migliorare la viabilità della città ma anche per fare degli scavi che altrimenti mai si sarebbero potuti fare. E dice, infine, che con questo cantiere, ce lo segniamo come direbbe Massimo Troisi, non ci sono scuse per fermarsi e per non rispettare l’obiettivo dei dieci anni: i finanziamenti ci sono (sei miliardi, il 70 per cento li mette lo stato, il 18 per cento il comune, il 12 per cento la regione), la burocrazia ha trovato un equilibrio (anche con i privati) e salvo ritrovamenti inaspettati il cantiere può diventare un modello per dimostrare che scavare, costruire, ritrovare, conservare e innovare sono cinque verbi che possono stare insieme anche quando si parla di Roma.

La burocrazia, già. Il miracolo politico, economico, culturale e infrastrutturale che incarna il cantiere più bello del mondo è però prima di tutto un miracolo burocratico, grazie al quale è possibile trovare un orientamento, un filo, all’interno di un labirinto che avrebbe sconvolto anche un Teseo in stato di grazia.

E il labirinto ove orientarsi è impressionante e, nel raggio di un chilometro, contiene di tutto. C’è la Sovrintendenza capitolina (con la v), che è di competenza del comune. La Sovrintendenza (con la v) dialoga con la Soprintendenza speciale di Roma (con la p) che è un ente sotto il controllo del Mic (il ministero della Cultura). Soprintendenza (con la P) all’interno della quale i singoli funzionari devono fare da cerniera con un’altra soprintendenza (senza v) che gestisce una stazione (Fori imperiali) il cui spazio è in condivisione anche con la Soprintendenza speciale di Roma (con la P) che gestisce il marciapiede dove si trova l’altra metro (la C). Metro gestita da un consorzio privato (WeBuild, Vianini, Hitachi, Emb, Consorzio cooperative costruzioni) che, oltre a collaborare felicemente con la Sovrintendenza (con la v) e con la Soprintendenza (con la p), dialoga con diversi enti: con il comune (che finanzia l’opera al 18 per cento), con il ministero delle infrastrutture (a cui arrivano i fondi europei con cui l’opera è finanziata), con la regione (da cui passano i soldi che arrivano al ministero delle infrastrutture), con la provincia (il cui palazzo si trova di fronte agli scavi), con Roma Metropolitane (società controllata dall’ente Roma Capitale a cui spettano i compiti relativi ai collaudi dei treni) che a sua volta, sentito l’ente unico del Vittoriano e di Palazzo Venezia che ha competenza sull’area in quanto due delle future porte d’accesso della metro sbucheranno dentro i due palazzi, deve agilmente coordinarsi con l’assessorato ai trasporti di Roma, dopo aver ricevuto le autorizzazioni necessarie dagli uffici del Primo municipio a dai responsabili della Conferenza dei servizi, dove siedono oltre che i funzionari del ministero della Cultura (Mic) anche i funzionari del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (Mase).

Tutto chiaro, no?

Daniela Porro, soprintendente speciale di Roma (con la p), dice che qualcosa in effetti sta cambiando e si slancia in una colta dichiarazione d’amore per il cantiere: “Forse a Roma non abbiamo fatto metropolitane per troppo tempo e pensavamo fosse divenuto impossibile. Invece, stazione dopo stazione, la realizzazione della linea C ha insegnato un metodo di lavoro in cui la costruzione di una grande infrastruttura non è in contrasto con la tutela dei beni culturali. L’archeologia preventiva e in corso d’opera si sta rivelando una vera occasione per restituire alla città la sua storia e per trasformare una stazione della metropolitana, che Marc Augé definiva un non luogo, in un’opera unica al mondo, come succederà per la Caserma romana a Porta Metronia”.

In questo nuovo skyline della città, i romani non vedono solo un nuovo ostacolo alla viabilità, un nuovo cantiere che chissà quando finirà, un tentativo patetico di proiettare Roma nella modernità. Vedono qualcosa di più. Vedono un luna park delle opportunità dove la costruzione del futuro, con mille difficoltà, con mille buche, con mille cartacce, con mille inefficienze, con mille gabbiani pronti a rilassarsi e castigarti alla prima distrazione, per la prima volta sembra essere meno lontana. Non si arriverà mai a Roma in dodici minuti, all’aeroporto, soddisfatti o rimborsati, come capita a Milano, e non si potrà mai decidere di mettere da parte la macchina, il motorino, il monopattino, il minicar per girare in città come succede a Parigi o come capita a Londra. Ma il cantiere di piazza Venezia è lì che si offre al romano placidamente incazzato con il mondo come un capitolo imprevisto delle nuove Great Expectations e valeva allora la pena farvi un salto per provare a capire che aria si respira, che fango si annusa e, tra cisterne, gru, getti di fango, silos, betoniere, camion, barre perimetrali, che idea di futuro transita dal cantiere potenzialmente più bello del mondo. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.