Renato Schifani - foto Ansa

Tensioni

In Sicilia, Lega e Fratelli d'Italia ai ferri corti. Prove di crisi nazionale

Paolo Mandarà

Renato Schifani cade per la seconda volta in sette giorni, ma ha messo a punto una strategia: andare avanti. I partiti continuano a pugnalarsi alle spalle, ma lui sembra essersene fatto una ragione e non vuole arretrare di un millimetro

Stavolta l’ipotesi dimissioni non l’ha quasi sfiorato. Renato Schifani, dopo la seconda umiliazione in sette giorni (una maggioranza bulgara e trasversale ha bocciato il progetto di ripristino delle province), ha lasciato il Palazzo dei Normanni, sede del parlamento siciliano, per rintanarsi nel palazzo di fronte, a Piazza Indipendenza, dove coi suoi collaboratori più stretti e sempre più sparuti, ha messo a punto la strategia: si va avanti. La conferma è arrivata questa mattina, al termine di un chiarimento con il presidente dell’Assemblea regionale, Gaetano Galvagno (FdI): solo “nel caso in cui fatti del genere dovessero ripetersi, verranno assunte decisioni politicamente importanti”.

 

 

Il centrodestra in Sicilia è martoriato dai mal di pancia e ostaggio dei veleni tra Lega e Fratelli d’Italia, che s’erano manifestati la prima volta una settimana fa, quando l’aula – col voto segreto – aveva stroncato la proposta (retroattiva) dei meloniani di salvare il seggio a tre parlamentari presunti “ineleggibili” e con un processo già in corso. Non era bastata la presenza del governatore, spettatore impassibile della disfatta, a ricompattare i suoi legionari. Dopo una settimana e la visita conciliante della presidente del Consiglio, a Catania, per la festa di Sant’Agata, la situazione s’è riproposta. E ha fatto persino più rumore: contro l’iniziativa di Schifani e di Totò Cuffaro di reintrodurre l’elezione a suffragio universale nelle province (con la garanzia del ministro Calderoli che la legge, nonostante la Delrio, non verrebbe impugnata), si sono espressi almeno dodici parlamentari della stessa coalizione.

 

 

I voti a favore del disegno di legge sono stati 25, quelli contrari 40. In aula, al momento del voto, c’erano 37 deputati eletti col centrodestra. Almeno dodici hanno tradito, o forse qualcuno in più se – come pare – un paio dell’opposizione hanno votato a favore. Il dato politico è che in Sicilia non esiste più una maggioranza stabile, che il governo non trova alcuna sponda nel parlamento e qualsiasi iniziativa assunta dal presidente di Forza Italia – che nel frattempo chiede a Tajani maggiore considerazione sulla scena nazionale del partito – rischia di rivelarsi un buco nell’acqua.
 

Schifani sta finendo stritolato nella morsa dei suoi principali alleati. Il Carroccio, poi, è stato appena commissariato da Salvini con l’invio di Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, che ha preso il posto dell’europarlamentare Annalisa Tardino, già in rotta con l’altra corrente del partito, la più potente: quella che fa capo al vicepresidente della Regione, Luca Sammartino. Cioè il principale oppositore della norma “salva-ineleggibili”, con un passato renziano, che si è frapposto fra i patrioti e il sogno di schivare il verdetto della magistratura. Sammartino, per altro, è il miglior cuscinetto che permette a Schifani di resistere alle critiche sempre puntute di Raffaele Lombardo, ex governatore e leader di un partito autonomista che con la Lega “risulta” federato. Più che con la Lega di Sammartino – contraria alla creazione di un intergruppo all’Assemblea regionale – con quella di Salvini, che punta sul sostegno di Lombardo per strappare un seggio nella circoscrizione Isole alle prossime Europee.
 

In attesa di stanare i franchi tiratori dell’Ars, operazione sempre ardua, Schifani si ritrova a dover gestire un fiume di scontentezze che rischia di esondare. Il governatore, che dalle opposizioni viene definito un “ologramma” (si presenta in aula, ma resta inespressivo e non interviene neanche se sollecitato), deve fare i conti con alcuni mal di pancia del suo stesso partito e, da ieri, con i cuffariani che chiedono di tornare sul luogo del delitto, riproponendo la stessa norma sulle province, già impallinata. Anche Fratelli d’Italia, dopo lo stop alla “salva-ineleggibili”, aveva minacciato di ritirare gli assessori dalla giunta, aprendo una crisi che da Roma hanno troncato sul nascere. La tregua, nel volgere di pochi giorni, ha lasciato spazio alla rappresaglia. Ma nel caso di Schifani è diverso: mentre i partiti continuano a pugnalarsi alle spalle, lui almeno se n’è fatto una ragione. Si va avanti lo stesso.

Di più su questi argomenti: