Il trionfo del boh

Nella comfort zone dell'antifascismo, il Pd ha perso la sua agenda

Claudio Cerasa

E’ difficile capire oggi quale sia la linea del partito, quale la parola d’ordine partorita dal conclave umbro. La principale debolezza della leadership di  Schlein è l’incapacità di fondo di combattere lo status quo dell’Italia. Elenco delle occasioni mancate

Il conclave convocato dal Partito democratico la scorsa settimana a Gubbio doveva essere una prova di forza del partito più importante dell’opposizione ma si è rivelato una manifestazione di debolezza pur essendo il conclave stesso particolarmente coerente con la linea politica adottata dalla linea del Pd, sintetizzabile con una parola di tre lettere: boh. Boh nel senso più nobile del termine. Così come è difficile capire quale sia la linea del Pd su molti fronti (non è un errore di comunicazione non comunicare cosa pensi il Pd davvero sul lavoro, sul Patto di stabilità, sull’Ucraina, sul medio oriente, sul mercato elettrico, sui diritti, è una scelta politica: dare all’elettore la possibilità di poter pensare che il Pd sia pronto a sostenere una tesi ma anche il suo contrario), allo stesso modo è molto difficile capire quale sia la parola d’ordine partorita dal conclave umbro, a parte un fiero, sano e gagliardo appello lanciato dal partito di Elly Schlein contro la deriva fascista del paese (per il prossimo conclave del Pd, stamperemo qualche copia omaggio di un libriccino di Esopo, intitolato Al lupo, al lupo). Boh, appunto.

 

A quasi un anno dalla sua elezione (il 27 febbraio: cin cin), il grande problema riscontrato da Schlein non è però quello di essere la portavoce della sinistra socialconfusa ma è quello di non essere riuscita a utilizzare la sua freschezza, il suo tratto giovanile, la sua leadership potenzialmente vicina allo spirito del tempo, per dettare l’agenda con forza, con coerenza, con efficacia. Il Pd riunisce i suoi cervelli ma nessuno se ne accorge. Il Pd fa opposizione ma nessuno se ne accorge. Elly parla ma nessuno se ne accorge. Un tempo si sarebbe detto che al Pd servirebbe un’agenda, anche piccolina, anche una mini Moleskine. Non si chiede questo, troppo ambizioso, ma quello che manca con evidenza al Pd oggi è la capacità di dettare l’agenda, di imporre temi, di portare il governo a discutere non delle proprie idee ma di quelle degli altri.

 

Da un anno il Pd di Schlein pensa che sostenere la tesi che il governo sia ostaggio del fascismo possa smuovere le acque del consenso. Da un anno sostenere la tesi che il governo sia ostaggio del fascismo porta più consenso al governo che all’opposizione. Il passaggio strategico che servirebbe a Schlein oggi non coincide solo con l’uscita progressiva dalla comfort zone dell’antifascismo ma coincide con la volontà di occuparsi un po’ meno dei peccati degli avversari e un po’ più dei vizi dell’Italia. Per farlo i temi a disposizione del segretario sarebbero molti e ci sarebbe l’imbarazzo della scelta per dimostrare quanto il governo Meloni sia inadatto a costruire un’ambiziosa agenda per il futuro.

 

Si potrebbe partire dall’incapacità di Meloni di creare ricchezza, di generare pil, di alimentare la crescita: nulla. Si potrebbe partire dall’incapacità di Meloni di parlare di concorrenza, come in fondo chiede anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che proprio sulla concorrenza ha bacchettato con forza il governo: anche qui, nulla. Si potrebbe parlare di innovazione, di intelligenza artificiale, di ricerca e di sviluppo, e si potrebbe chiedere perché l’Italia di Meloni consideri questi temi poco più che spazzatura: ma anche qui nulla di nulla. Si potrebbe parlare poi di giustizia, per esempio, sfidando il ministro Nordio a portare avanti una rivoluzione garantista che il Pd, prima di Schlein, ha sempre auspicato: ma anche qui nulla. Ci si potrebbe chiedere perché il Pd non riesca a dettare un’agenda in grado di trasformare il principale partito dell’opposizione nel cane da guardia dei vizi dimenticati del nostro paese (in alcuni casi, se possibile, le ricette economiche del Pd sono più irresponsabili di quelle del governo, per esempio sul debito: ricorderete quando nel dicembre del 2022 la maggioranza approvò per sbaglio un emendamento proposto dal Pd, per il quale occorrevano coperture pazze da mezzo miliardo, e in quell’occasione fu il Pd a chiedere di sopprimere quell’emendamento, dicendo di aver fatto un errore).

 

La risposta a questa domanda non può essere confinata all’idea che, avendo Meloni cambiato così tante posizioni su molti temi, sia molto difficile per il Pd fare opposizione a una Meloni che su alcuni argomenti fa quello che farebbe il Pd se fosse al governo (Pnrr, Patto di stabilità, politica estera). La risposta a questa domanda va individuata in quella che è la principale debolezza con cui fa i conti la leadership di Schlein. Non l’incapacità di spiegare al mondo quanto sia fascista il governo Meloni ma l’incapacità di fondo di combattere lo status quo dell’Italia. Non si parla di innovazione perché l’innovazione fa paura e perché scommettere sull’innovazione significherebbe scommettere sul potere distruttivo e rigenerativo del capitalismo. Non si parla di concorrenza perché la concorrenza fa paura e perché scommettere sulla concorrenza significherebbe scommettere sulla distruzione progressiva dei poteri consolidati, delle corporazioni, e per un partito che cerca disperatamente di difendere la sua rendita di posizione aggredire l’esistente significa aggredire se stesso. Non ci si occupa di giustizia, con un piglio garantista, perché adottare quell’approccio significherebbe sfidare un altro potere costituito, quello della casta dei magistrati ideologizzati che quella sì è tornata a dettare l’agenda alla sinistra trasformando il diritto allo sputtanamento in diritto di cronaca e inserendo il primato delle procure sulla politica nella Costituzione immateriale del paese.

 

Schlein non riesce a dettare l’agenda del dibattito pubblico non perché non ha nulla da dire ma perché sa che ciò che dovrebbe dire per provare a rappresentare un pezzo maggioritario del paese costringerebbe il suo Pd a prendere decisioni, a scardinare l’esistente, sfidare lo status quo e uscire dalla comfort zone. “Con questi dirigggenti non vinceremo mai”, disse Nanni Moretti nella mitica piazza Navona del 2002. Allo stesso modo oggi Giorgia Meloni potrebbe dire: con questa opposizione, cari dirigggenti d’Italia, non perderemo mai, e dunque teniamoci stretta Elly, visto mai fosse davvero la nostra assicurazione sulla vita.
 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.