L'intervista

“L'Ilva chiuderà, è un lento suicidio annunciato”. Parla Calenda

Luciano Capone

"Esistono patti parasociali fatti dal governo Conte in una condizione di svantaggio per lo stato. Nessuno vuole assumersi la responsabilità di chiudere lo stabilimento, ma si fanno azioni che porteranno alla sua chiusura", dice il leader di Azione

A differenza dal solito, stavolta Carlo Calenda è pessimista: “Nessuno può gestire una fabbrica così”, dice al Foglio. “Siamo ancora qui a ricordare la storia, passaggio dopo passaggio, ma la questione è che l’Ilva chiuderà”. Il leader di Azione parla dopo l’informativa sul polo siderurgico di Taranto del ministro delle Imprese, in cui Adolfo Urso ha illustrato la “grave crisi” dell’impianto, il mancato rispetto degli impegni presi da parte del socio industriale ArcelorMittal e la presenza di “patti parasociali” fortemente sbilanciati a favore del soggetto privato, siglati sotto il governo Conte II (“Patti che definire leonini è un eufemismo”, ha detto Urso). 

 

Il ministro dice che il governo vuole garantire continuità produttiva e occupazionale, ma non è stato chiaro sulle modalità. “Non l’ha spiegato e per questo vanno conosciuti i patti parasociali che lasciano pochissimo spazio di manovra al socio pubblico – dice Calenda –. All’epoca dissi che far saltare l’accordo blindato con Mittal con pegno di 4,2 miliardi per farne un altro entrando in società in minoranza significava arrivare alla chiusura. È stato un lento suicidio, che si sta consumando sotto i nostri occhi”. 

 

Questi patti parasociali sembrano un mistero: il M5s con Mario Turco, all’epoca era sottosegretario di Conte a Palazzo Chigi, dice che non esistono affatto. “Beh, vuol dire che uno dei due tra Urso e lui mente. Ma i cinque stelle non hanno mai visto un’azienda, non esiste che fai una società senza regolare i rapporti con il socio attraverso patti parasociali. Esistono accordi tra Mittal e Invitalia, come ha ricordato bene Urso, fatti in una condizione di assoluto svantaggio per lo stato”. Perché? “Dopo aver tolto lo scudo penale cambiando il quadro normativo, Mittal si ritirò e Conte minacciò la ‘madre di tutte le cause’. Ma dopo la sparata si rese conto che avrebbe perso la causa. A quel punto o sei in grado di far rispettare l’accordo o rimetti l’Ilva in amministrazione straordinaria”. Invece? “Invece si è messo in società con quelli contro cui voleva fare la causa del secolo, e Mittal si è trovata col coltello dalla parte del manico”. È ciò che certificherebbero i patti parasociali, che però non si sa cosa dicano. “Ho fatto un’interrogazione a Urso chiedendo di mostrarli”.

 

Ma cosa dovrebbe fare il governo per rilanciare l’Ilva? Con Mittal la prospettiva pare di un matrimonio che non può più funzionare o di un divorzio molto costoso. “La mia posizione istintiva è di metterla in amministrazione straordinaria e rifare una gara. Ma è una posizione teorica, perché non so se c’è una penale o ad esempio il rimborso degli investimenti sostenuti. Mettere altri soldi con Mittal dentro, ma senza un contratto blindato com’era inizialmente, è una follia visto che è un socio che ora non ha più alcun interesse a far funzionare l’impianto. Non si può restare ostaggio di Mittal che avrà diritto di veto su ogni materia anche se è in minoranza. Ma per esprimere una posizione compiuta è necessario vedere i patti, senza dei quali non conosciamo una fondamentale componente di costo”.

 

Urso ha accusato anche lei, perché da ministro non avrebbe dovuto far vincere Mittal ma la cordata alternativa di Cdp. “In pratica avrei dovuto commettere un reato – dice Calenda sorridendo –. Era una gara europea, sorvegliata dalla Commissione, manipolando la gara avrei fatto un danno erariale. Seconda idiozia: Jindal (che guidava l’altra cordata con Cdp) ha preso Piombino, che è un decimo di Ilva, e non ha avuto le risorse  per fare investimenti. Mittal era il più grande del mondo, mentre Jindal un gruppo forte in India. Fa davvero ridere ora  che Mittal, un gruppo franco-inglese, sarebbe indiano mentre Jindal è addirittura italiano. Ecco lo schema sovranista-populista: da un lato chi dice che si doveva vendere a quello che ha fallito a Piombino manipolando una gara, dall’altro chi dice che il problema è  Mittal con cui ci ha fatto una società insieme in minoranza per fare l’acciaio green che non esiste al mondo”.

 

Intanto la procura di Taranto ha  mandato i carabinieri in fabbrica per un’altra inchiesta sull’inquinamento. “Nessuno può gestire una fabbrica così”. La domanda, forse un po’ ingenua, è se si vuole davvero produrre acciaio a Taranto, quegli 8 milioni di tonnellate del piano industriale. “La risposta a questa domanda fondamentale è che nessuno vuole assumersi la responsabilità di chiudere l’Ilva, ma si fanno azioni che porteranno alla sua chiusura. Così ci metteremo prima altri 3-4 miliardi e alla fine Taranto avrà nel centro della città un enorme buco da bonificare che costerà 10 miliardi”. Se si bonificherà mai, perché il precedente di Bagnoli non è confortante. “Il rischio più grande è che non ci sarà più né la produzione né l’ambientalizzazione”. 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali