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L'editoriale del direttore

Qualcosa si muove contro l'ambientalismo modello Tafazzi

Claudio Cerasa

Criticare l’ecologismo più radicale non significa essere negazionisti. E in Europa si vedono segnali di realismo: la battaglia sul clima è importante, ma più che di catastrofismo e divieti è fatta di innovazione e tecnologia. Anche la sinistra dovrebbe capirlo 

Ma siamo proprio sicuri che essere diffidenti sull’ambientalismo ideologico sia una roba da osceni negazionisti? Proviamo a unire velocemente i puntini per capire di cosa stiamo parlando. Il primo puntino coincide con il discorso fatto due settimane fa dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen durante la giornata dedicata allo stato dell’Unione. Tema: è ora che l’Europa faccia qualcosa per evitare che le sue politiche green possano diventare un assist utile a favorire le pratiche commerciali sleali della Cina. Green deal sì, ma non così. Il secondo puntino da collegare coincide con le posizioni espresse, qualche giorno prima, dal commissario che ha sostituito Frans Timmermans nel ruolo di responsabile europeo dell’unione energetica. Timmermans, socialista, è stato l’inventore del green deal, il famoso pacchetto di iniziative strategiche che mira ad avviare l’Ue, in modo brutale, sulla strada di una transizione verde. 

Il successore di Timmermans si chiama Maros Sefcovic. E nel suo primo intervento da commissario ha spiegato di non voler seguire sulle politiche ambientaliste un approccio ideologico. “Gli europei – ha detto – meritano una transizione verde giusta. Poiché miriamo a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, dobbiamo garantire che ciò avvenga in modo equo e inclusivo, con crescita e occupazione per tutti”. Piccoli segnali che si uniscono a una serie di segnali ulteriori raccolti nelle ultime settimane. Il tema è sempre l’ambiente, il sottotesto è sempre lo stesso: difendiamo il pianeta, ma senza darci martellate in mezzo alle gambe. Prendete il premier inglese, il conservatore Rishi Sunak, che ha affermato di voler mantenere l’impegno di raggiungere le zero emissioni di CO2 entro il 2050, ma di voler adottare un “approccio più pragmatico, proporzionato e realistico”. In cosa consiste l’approccio realistico? Semplice. Lo stop alla vendita delle auto a benzina sarà ritardato di cinque anni, dal 2030 al 2035. Non ci sarà nessun limite di trivelle nel Mare del Nord. Il governo prolungherà anche il termine del divieto di nuovi scaldabagni a gas, che originariamente doveva entrare in vigore nel 2035, mentre per quella data ora si prevede una quota “solo” dell’80 per cento. Saranno eliminati gli obblighi di efficienza energetica per le case. Gli scaldabagni alimentati a benzina non scompariranno più nel 2026, ma quasi dieci anni dopo, dal 2035. E poi: stop a nuove tasse per scoraggiare l’uso dell’aereo, a quelle sui cibi poco salutari e nessuna nuova misura per favorire la condivisione di autovetture e dunque inquinare di meno. Passano pochi giorni e tocca alla Svezia. La bozza della legge di Bilancio presentata mercoledì scorso, come ha notato Carlo Stagnaro sul Foglio, ha messo nero su bianco che sarà impossibile raggiungere i target ambientali entro il 2045. “Tra i provvedimenti che prenderemo, alcuni aumenteranno le emissioni – ha detto la ministra delle Finanze, la conservatrice Elisabeth Svantesson, riferendosi in particolare ai tagli delle accise sui carburanti – ma stiamo anche facendo molte altre cose che porteranno a riduzioni delle emissioni nel lungo termine”. Passa un giorno ed è la volta della Germania. La coalizione di centrosinistra (la coalizione semaforo, guidata da Olaf Scholz) ha annunciato di voler modificare una legge importante sui temi climatici. Venerdì scorso il Bundestag ha discusso un progetto di legge federale volto a modificare per la prima volta la legge sulla protezione del clima. Il punto chiave della legge era questo: se i settori, come l’industria, l’energia, i trasporti e l’edilizia, non riescono a raggiungere gli obiettivi prefissati sul fronte climatico, i dipartimenti federali responsabili devono apportare modifiche sotto forma di programmi di emergenza per garantire il rispetto dei livelli di emissione. Obiettivo: far emettere alla Germania il 65 per cento in meno di gas serra rispetto al 1990. La proposta della nuova legge è tranchant: gli obiettivi rimangono ma i requisiti per la riduzione delle emissioni nei singoli settori specifici devono essere aboliti. La coalizione semaforo, come sapete, ha al suo interno anche i Verdi, ma nonostante questo, da venerdì scorso, gli ambientalisti tedeschi, guidati da “Fridays for Future”, sono in rivolta contro il governo. L’ultimo tassello del mosaico è quello arrivato venerdì scorso dalla Francia, dove 75 deputati francesi ed europei della maggioranza presidenziale hanno firmato un appello così intitolato: “Per un’ecologia del buon senso”. Senso dell’appello: la politica ecologica deve essere “essere giusta e positiva. L’approccio che adottiamo si basa su soluzioni innovative e sostenibili che vanno oltre le ingiunzioni e i divieti”.

Il filo conduttore di queste storie è evidente. In Europa, un’ondata di realismo, sui temi ambientali, sta travolgendo la politica. E la politica, in modo trasversale, ha compreso che gli obiettivi climatici sono importanti, sono cruciali, sono essenziali ma vanno raggiunti senza isteria, senza dogmatismi, senza farsi travolgere dalla demagogia degli ambientalisti ideologici, senza mai dimenticare che un ambientalismo sano non è quello che impone i suoi princìpi a colpi di regole, divieti, proibizioni ma è quello che sceglie di scommettere sulla transizione ecologica puntando più sull’innovazione e sulla tecnologia che sul catastrofismo e sul senso di colpa e puntando anche a rimarcare il fatto che i paesi europei sul fronte della difesa del clima e del rispetto dell’ambiente stanno già facendo molto, da anni, e hanno dunque bisogno di portare avanti politiche green che siano compatibili con la difesa del benessere, della crescita e del lavoro (per dire: lo sapevate, infine, che l’Unione europea, che rappresenta circa il 19 per cento del pil mondiale, produce l’8 per cento dei gas serra globali?).

Il Financial Times, commentando le uscite di Sunak, ha giustamente notato che indietreggiare eccessivamente sugli obiettivi climatici può essere un rischio più per l’economia che per il clima perché in una stagione come quella che stiamo vivendo oggi, dove le imprese, le industrie e le multinazionali hanno cominciato a stanziare milioni e milioni sull’ambiente (vedi alla voce investimenti Esg), perdere il treno della transizione significa perdere il treno degli investimenti. “I conservatori – scrive Ft – si consideravano il partito degli affari, ma stanno spingendo il Regno Unito in fondo alla corsa per dominare l’economia verde del futuro”. Il punto sollevato da Ft è reale e va considerato. Ma intanto il fenomeno che sta maturando in Europa merita attenzione. E il fenomeno è presto detto. Criticare l’ambientalismo ideologico non significa essere negazionisti. E lasciare agli estremisti di destra il compito di riequilibrare l’ambientalismo punitivo costruito con molte regole, molti dogmi, molti sensi di colpa ma con poca innovazione, poco ottimismo e poca fiducia nel futuro significa voler difendere il pianeta dandosi regolarmente eleganti martellate in mezzo alle gambe.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.