Le richieste di Zaia sul terzo mandato agitano FdI. Meloni si prepara alla sfida con Salvini

Valerio Valentini

La convergenza trasversale tra il Doe, il pugliese Emiliano e il campano De Luca. E quei messaggi ostili al governo su autonomia, Pnrr e migranti. Dunque il Doge si prepara allo scontro? C'è chi scommette sulla sua capacità di mediazione. Intanto nel centrodestra inizia la guerriglia per la spartizione delle regioni

A renderla insidiosa, non è tanto che si tratta di un’offensiva a tenaglia, che da nord e da sud converge verso Roma. C’è soprattutto che questa guerriglia apre ogni giorno un nuovo fronte di scontro. Trasversale, peraltro: perché i registi di questa operazione sono Vincenzo De Luca e Michele Emiliano da un lato, e Luca Zaia dall’altro: tutti con vista sul 2025. E sarà che agli amici è più difficile dare dispiaceri, sarà che c’è di mezzo pure Matteo Salvini, ma non c’è dubbio che le rivendicazioni del presidente veneto siano quelle che più preoccupano Giorgia Meloni.  

Non che fosse del tutto inattesa, la richiesta di Zaia. E chissà se poi davvero è giusto, come alcuni dei vertici di FdI fanno, ricondurre a quella qualsiasi posa non proprio conciliante che il Doge assume di questi tempi. “Però gli indizi ci sono”, dicono a Via della Scrofa. E allora vanno messi in fila.

Il primo dispaccio è stato recapitato direttamente a Palazzo Chigi. Ed era così esplicito, così perentorio, che non sono servite esegesi. “Se l’autonomia non arrivasse nella tempistica del 2024 vuol dire che abbiamo fallito come obiettivo. Ma non fallisce la Lega, fallisce il governo”. Era il primo agosto e così parlava Zaia dal palco di Cervia. E uno dice: vabbè, è una festa di partito, ci sta che si usino i toni baldanzosi di chi vuole galvanizzare la folla. “Però di fatto”, notò in quei giorni un esponente di governo meloniano, “è la prima minaccia all’esistenza dell’esecutivo che arriva da un partito della coalizione”. Che poi la scadenza indicata, la fine del 2024, fosse proprio a ridosso dell’avvio della campagna elettorale che porterà alla scelta del nuovo presidente veneto, valse a dare sostanza ai retropensieri del caso. Gli stessi che del resto elaborarono i collaboratori di Raffaele Fitto pochi giorni dopo, quando proprio Zaia, al termine dell’incontro del ministro per gli Affari europei coi governatori, si unì, con toni più garbati ma altrettanta fermezza, alle lamentele che sulle modifiche proposte dal governo al Pnrr arrivavano, manco a dirlo, da Emiliano e De Luca, pure loro determinati a garantirsi il terzo giro di giostra.

E qui con un avvitamento ulteriore. Perché sia il presidente pugliese sia quello campano sanno bene che prima ancora di sperare in un intervento normativo da parte del Parlamento, o in un accordo politico trasversale che acconsenta alla forzatura sul limite dei due mandati, devono convincere la loro leader. E siccome entrambi sanno bene che Elly Schlein non ha alcuna intenzione di assecondarne le istanze, cercano sponde meno convenzionali. De Luca ha lasciato intendere che davvero sarebbe disposto a candidarsi comunque, con o contro il Pd, e su questo tema i colloqui che ha avuto con esponenti del Terzo polo, sponda renziana, erano più di un pourparler. Emiliano è andato perfino oltre. Prospettando, lui che pure fu il grande teorico del radicalismo dem in alleanza col M5s, la nascita di un nuovo “polo riformista, socialista e moderato insieme, improntato allo sviluppo e al lavoro”: e facendolo, e qui sta il bello, con dirigenti di primo piano di Forza Italia. Manovre abbastanza spericolate, insomma. E si capisce che, nella speranza dei due dem, a renderle più concrete dovrebbe essere proprio la convergenza impensabile con le mosse di Zaia. “Se dicono di sì a lui, come potranno opporsi a noi?”, è il ragionamento. Ed ecco che allora perfino la rimostranze dei sindaci leghisti veneti vengono ricondotte, da alcuni, alla guerriglia del governador. 

E qui però sta l’enigmatica imprendibilità del personaggio. Uno che quando tutto sembra dovergli suggerire di affondare il colpo, proprio allora scarta e cerca il compromesso. Che dunque, dopo aver provato a forzarle la mano, Zaia cerchi infine un’intesa con Meloni, non è proprio da escludere. Anche perché sa bene che lo sdoganamento del terzo mandato costituirebbe un problema serio, per la premier. Specie ora che i rapporti di forza nella coalizione legittimerebbero anche la voracità del partito della Fiamma. Dunque perché rinunciare al Veneto, e poi alla Lombardia, e alla Liguria, insomma perché iniziare la trattativa sulla spartizione delle nove regioni che nel 2025 andranno al voto? Quanto al Veneto, poi, perfino nel centrodestra l’eternità di Zaia non riscuote solo riverenze. Flavio Tosi, redivivo, ha iniziato già ad attaccarlo; e perfino nella Lega le difese d’ufficio al Doge – quella di Massimo Bitonci, suo acerrimo nemico, quella dello scalpitante giovane segretario Alberto Stefani – sono parse tardive e non proprio convintissime. E in Via della Scrofa fanno sapere che, ovviamente, anche loro hanno validi candidati: dall’assessora Elena Donazzan, ai senatori Raffaele Speranzon e Luca De Carlo, quest’ultimo forte del sostegno del ministro Francesco Lollobrigida. Dunque davvero, in questa gazzarra, Zaia proverà a imporsi su tutto e su tutti, come pure avrebbe forse la tentazione di fare? Chissà. Di certo c’è che chi lo conosce bene giura che di entrare in conflitto con Meloni non ne ha alcuna voglia, e che semmai potrebbe trattare la sua ritirata direttamente con la premier. Ottenendo altro. In fondo ha appena 55 anni. E dice di sentirsene molti meno.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.