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Il caso

I due populismi simmetrici che emergono dal dibattito sull'autonomia

Piercamillo Falasca

Della speranza di liberare il Nord dalle zavorre di uno Stato iperburocratizzato, ma anche porre il Mezzogiorno di fronte alla sfida della modernità rimane solo un dibattito sulla spartizione della torta

C’è stato un tempo in cui le istanze federaliste erano serie e diffuse sia a destra sia a sinistra, perché si partiva dal presupposto che avvicinare il luogo delle decisioni al cittadino aumentasse il livello di responsabilità della politica e ingenerasse un processo di competizione virtuosa tra territori, “costretti” a migliorare la propria offerta di servizi e a ridurre il carico fiscale per attrarre residenti e imprese. C’è stato un tempo, cioè, in cui si è sperato che il federalismo potesse non solo liberare il Nord dalle zavorre di uno Stato iperburocratizzato e autoreferenziale, ma anche porre il Mezzogiorno di fronte alla sfida della modernità e dell’autodisciplina, stimolando anche un rinnovo della sua classe dirigente. Di quella grande illusione oggi non resta molto: il dibattito sulla cosiddetta “autonomia differenziata” verte solo su un punto, la spartizione della torta. La pretesa degli autonomisti – nella Lega ma diffusi anche in altri partiti – non è affidare alle regioni sia il potere impositivo che il potere di spesa relativo alle funzioni che lo Stato dovrebbe trasferire ai territori, ma assegnare alle amministrazioni regionali la facoltà di usare a proprio piacimento risorse raccolte dallo Stato attraverso le imposte statali.

Le regioni, cioè, vogliono poter spendere più soldi e fare più cose, dalla sanità all’istruzione passando per i trasporti e le politiche del territorio, a condizione che sia lo Stato a dar loro i quattrini, a fare la faccia cattiva con i contribuenti, a sorbirsi le occhiatacce della Commissione Europea ed eventualmente le batoste sui mercati finanziari. Un vero federalismo sarebbe invece un modello nel quale chi spende è anche chi tassa, così da permettere al cittadino di valutare l’una e l’altra faccia della medaglia, ed è pienamente responsabile fino al rischio di default. Un vero federalismo ha senso se il trasferimento di competenze dal centro alla periferia riduce la spesa pubblica, mentre è evidente che l’autonomia differenziata nostrana farebbe lievitare i costi, perché indurrebbe una duplicazione di strutture e personale.

Anche l’idea dello “scambio” tra autonomia differenziata e definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (lep) per tutti i cittadini è un’ipocrisia: non ci sarebbe certo da attendere la devoluzione delle competenze sull’istruzione alla Lombardia, per esempio, per sancire che un cittadino italiano ha diritto a un livello dignitoso delle prestazioni in materia di istruzione a qualunque latitudine viva, da Bergamo a Catanzaro. Se ciò non avviene, e cioè se oggi la spesa “buona” per welfare, scuola, sanità o trasporti al Sud è insufficiente (dati alla mano, lo è), allora occorre investire di più e meglio, ma tagliando severamente la spesa “cattiva”, che è tanta e particolarmente concentrata a Mezzogiorno. Insomma, il dibattito sull’autonomia differenziata sta facendo emergere il peggio, a Nord e a Sud: tutti i cacicchi regionali chiedono più soldi, nessuno dice dove li prenderebbe; l’autonomia è diventata un’ambizione statalista, mentre del federalismo come modello liberale e competitivo di governo dei territori non c’è più traccia.

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