verso la manovra

Così Salvini complica il lavoro di Giorgetti sulla legge di Bilancio

Valerio Valentini

Il ministro dell'Economia predica cautela sui conti e chiede tagli e sacrifici ai colleghi di governo (serve un miliardo di spending review). Perfino su Tim il Tesoro prova a guadagnare tempo. E però il vicepremier leghista insiste con richieste esose: dalle accise alle pensioni, passando per il Ponte sullo Stretto. Qualcosa non va

Ha iniziato e vuole proseguire: che il messaggio arrivi a tutti forte e chiaro. Dopo il Meeting di Rimini, sarà la volta del Forum Ambrosetti. Anche quel palcoscenico Giancarlo Giorgetti vuole sfruttarlo, domenica prossima, per ribadire il concetto: che i soldi, cioè, sono pochi, e le velleità di spesa vanno ridimensionate. Del resto, che quella fosse l’aria, i colleghi di governo lo avevano capito già prima delle vacanze, quando il capo di Via XX Settembre aveva voluto raccomandare a ciascun ministro, nel corso di riunioni bilaterali, di mantenere l’impegno dei tagli al bilancio delle loro strutture, e se possibile corroborarlo. E non è che la risposta fosse stata entusiastica. E si capisce, allora, che non si aspettasse altro che poter cogliere Giorgetti in fallo. E a propiziarlo, questo cortocircuito, non poteva che essere, fatalmente, Matteo Salvini.

Perché se davvero quello richiesto dal Mef, in vista della legge di Bilancio, è un sacrificio collettivo, allora forse sarebbe opportuno che il primo ad assecondare questo monito fosse proprio il ministro dei Trasporti. Che non è solo il vicepremier, ma anche il capo del partito di quel Giorgetti che appunto predica parsimonia. E invece le richieste più esose, in questi giorni, arrivano proprio da Salvini.

Giorgetti sconsiglia  avventurismi sul fronte previdenziale? E Salvini subito, di rimando: “Quota 41”. Che non si può fare, è chiaro perfino ai leghisti che la invocano. Eppure ci si insiste. Al punto che quando Antonio Tajani decide di rilanciare con le pensioni minime a mille euro, lo fa con la  consapevolezza di chi sa, e lo spiega ai parlamentari di Forza Italia, che o gli appelli alla cautela vengono raccolti da tutti, oppure ciascuno suona la propria campana. Che poi si dovrà accettare niente più che una proroga delle misure transitorie già adottate da Mario Draghi – una riproposizione di Quota 103, col ricorso all’Ape social e sacrificando forse perfino Opzione donna – è cosa nota a tutti, al governo. Ma rassegnarsi per primo nessuno ci sta. Tanto più che s’approssima la campagna  delle europee, “e dunque perché noi – dice Tajani – dovremmo rinunciare alle nostre battaglie?”.

Vale lo stesso per il caro benzina. Pure quella è una battaglia che Salvini ha provato a intestarsi. E il fastidio con cui lo stato maggiore di FdI ha accolto la notizia lo si è percepito, venerdì, negli sbuffi d’insofferenza con cui un ministro meloniano ha chiosato le agenzie stampa che riportavano l’invito del leghista Claudio Durigon a “dare una prima sforbiciata” alle accise: “Solita mossa da cuor di leone”, è stato il commento. Indirizzato non tanto al sottosegretario al Lavoro, ma a chi lo aveva mandato in avanscoperta. “L’intesa sulle accise è stata siglata da tutti a dicembre scorso”, spiegano da Via della Scrofa, “e rimetterla in discussione ora significa fare il gioco della sinistra”. Significherebbe, peraltro, anche prevedere una spesa insostenibile. E forse anche per disinnescare questa manovra ostile di Salvini, senza però rischiare di mostrarsi indifferente alle istanze dei cittadini alle prese con l’inflazione, Meloni ha approvato l’ipotesi della “social card” per la benzina avanzata dal ministro delle Imprese Adolfo Urso. Coi colonnelli salviniani subito a rivendicare: “Visto? Le nostre pressioni servono”. Draghi varò un voucher da 150 euro per i redditi meno abbienti: costò poco meno di 2 miliardi. Ed è una cifra che forse il governo potrà permettersi, attingendo al maggior gettito Iva.

Forse, però. Perché la ricerca di soldi è così spasmodica, alla vigilia della Nadef, che perfino sul via libera all’operazione su Tim (poi varata in Cdm) nelle scorse ore si sono registrate tensioni: col capo di gabinetto di Meloni, Gaetano Caputi, a insistere perché si finalizzasse l’accordo col fondo americano Kkr, e la Ragioneria a temporeggiare, ché quei 2,2 miliardi necessari per chiudere la partita – sono quelli che il Tesoro dovrebbe utilizzare per controllare il 20 per cento della rete –  potrebbero poi tornare maledettamente utili tra qualche giorno. Per molto meno, d’altronde, Giorgetti ha accettato di inimicarsi i colleghi di governo. Chiedendo, cioè, se non fosse possibile portare a un miliardo la cifra di taglio alle spese dei vari ministeri che nel Def era fissata a 800 milioni. E tanto è bastato per indisporre, più di tutti, Urso e dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano.

Ed ecco spiegate le rimostranze di questi giorni da parte di chi, sentendosi chiedere sacrifici, legge di un Salvini che chiede soldi per il Ponte sullo Stretto. Due miliardi: a tanto ammonterebbe la pretesa del vicepremier per “dare un segnale” e avviare i cantieri. Ma davvero si può pensare che i suoi compagni di governo, specie quelli di FI e FdI, accettino di fare economia per permettere a lui di fare campagna elettorale posando una fantasiosa prima pietra?
 

Di più su questi argomenti:
  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.