Così Urso imbarazza il governo sulle accise, ma si gode i sondaggi. Meloni sbuffa e cerca rimedi
“Sono il più amato dei ministri”, dice agli amici il titolare del Mimit. Dove i suoi funzionari dicono: “Così non ce la facciamo più: prima annunciamo le cose, poi ci chiediamo come farle”. La figuraccia sulla benzina è solo l'ultimo inciampo dell'uomo che voleva fermare l'inflazione a mani nude. Giorgetti e Crosetto si lamentano
E sì che a tanti sembrerebbe in affanno. E invece – per dire di come la vanità può essere il miglior rifugio di chi annaspa – Adolfo Urso in questi giorni si compiace non poco di sé: per questo condivide con amici e compagni di partito un sondaggio che lo vorrebbe come il ministro col maggiore indice di gradimento popolare. Ha pasticciato con la benzina, ha innescato una mezza zuffa diplomatica con Bruxelles sui voli, deve scansare gli sbuffi dei suoi collaboratori e il malcontento che sul suo operato nutrono i suoi colleghi di governo, insomma ha messo in fila una serie di figure un po’ così. E però, lui, se la gode per l’amore che gli elettori gli tributano. Del resto è un vizio diffuso in Italia, e già dai tempi di Flaiano, quello di aspirare a morire in odore di pubblicità. Dunque perché sorprendersi se, insediatosi a Palazzo Piacentini, accortosi che nel paese non godeva della fama che meritava – benché lui avesse pure ribattezzato patriotticamente il suo ministero – ordinò al suo ufficio stampa: “Voglio un’intervista al giorno”. Poi, siccome Giorgia Meloni lasciò intendere che certe smanie comunicative non erano gradite, lui, indefesso, volle stupirla. Era fine gennaio, e Urso s’era messo in testa di fermare i rincari della benzina. Il suo rapporto travagliato coi carburanti, e forse col senso del limite, nasce lì. Meloni era ad Algeri. Lui la chiamò e le garantì: “Accordo fatto coi rappresentanti di categoria, lo sciopero dei benzinai è revocato”. Convocò una riunione a Via Veneto con le varie sigle, prima però allertò i telegiornali: “Pronti per la notiziona?”. Poi finì come si sa, con lo sciopero dei benzinai. E con lui che ingiuriava il suo staff, minacciando licenziamenti in massa.
Non proprio un trionfo. Ma almeno si pensava potesse valere, quella delusione, a suggerirgli cautela quando si parla di prezzi di verde e gasolio. Almeno. E invece al primo accenno di rincaro, ecco che Urso è tornato alla carica. Prima se l’è presa coi benzinai. Poi, siccome la retorica complottista-sovranista imponeva di cercare in più alte sfere del potere occulto i veri affamatori del popolo, ha detto che s’era sbagliato, che i colpevoli della speculazione erano i raffinatori. Sempre additati con la terza persona plurale, sparacchiando nel mucchio. Poi, al dunque, l’illuminazione: è colpa delle accise, ché “se il prezzo industriale della benzina viene depurato dalle accise”, ha osservato il ministro con acume due giorni fa, “è inferiore rispetto ad altri paesi europei come Francia, Spagna e Germania”. Col sollievo che s’immagina da parte di Meloni, proprio lei che le accise, parzialmente sterilizzate da Draghi, in legge di Bilancio le aveva rialzate. Dunque alla fine la ricerca spasmodica del colpevole da parte dell’ispettore Urso ha dato i suoi frutti: la colpa è del governo. Cioè di Urso. E allora si spiega anche l’insofferenza mostrata dai suoi colleghi di partito in queste ore nei confronti della sua “sovraesposizione”. Insofferenza che si mostra anche così: e cioè nel fastidio con cui un alto dirigente di FdI, sollecitato a commentare le mosse dell’esecutivo alle prese col caro benzina, si schermisce chiedendo ai cronisti “se vi pare normale venire a chiedere a me di mettere una pezza alle robe che dice Adolfo”, per cui insomma “domandatela a lui, una spiegazione, se ce l’ha, sempre che nel frattempo non abbia fatto altre brillanti dichiarazioni”.
Un bel clima, insomma. Che è poi grosso modo quello che si respira anche in certi corridoi del Mimit. Dove alcuni collaboratoti di Urso, alcuni suoi direttori generali, lamentano l’insostenibilità di un metodo per cui “prima annunciamo le cose, poi ci chiediamo se e come possiamo farle”. Confidenza di uno di loro: “E certo che anche la faccenda del cartello coi prezzi medi regionali della benzina in bella vista sapevamo che era di dubbia efficacia. Ma qualcuno deve aver detto al ministro: ‘Noi ora spingiamo questa iniziativa, tanto poi i prezzi scendono e il merito sarà anche nostro’”. (Operazione che non sembra essere riuscita, a giudicare dal livore con cui sulla pagina Facebook del ministro i suoi follower – e saranno certo tutti assoldati da Elly Schlein – commentano sbraitando e chiedendo le dimissioni.) Del resto, e forse con la stessa logica, due settimane fa Urso ha anche rivendicato il successo nell’aver contribuito, lui col suo sedicente “monitoraggio dei prezzi”, a fermare l’inflazione. Roba che manco Napoleone. E forse è una baldanza che stride un po’ con la cedevolezza mostrata invece di fronte alle rimostranze dei tassisti: in quel caso – ma si sa che i tassinari romani sono una minaccia ben peggiore, e più inafferrabile, del rialzo mondiale dei prezzi – il ministro ha deposto serenamente i suoi propositi di promuovere una sia pur timida liberalizzazione delle licenze, rimettendo la grana ai sindaci, che se la sbrighino loro.
Nel frattempo, incredibilmente, i suoi colleghi di governo non sono proprio entusiasti di lui. Giancarlo Giorgetti, per dire, ha fatto in modo di continuare a gestire lui la trattativa coi turchi su Whirlpool, facendo valere l’affezione a una crisi che interessa la sua Varese. Alla Difesa, come pure tra i consiglieri della premier, lamentano che la delega all’aeropsazio, che Urso ha fortemente voluto, non viene gestita dal Mimit come si dovrebbe. E di qui, insomma, le voci di una Meloni intenzionata a farlo candidare alle europee per allontanarlo dall’esecutivo. Proprio lui, il più amato dagli italiani.
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