Perché sul  Patto di stabilità Meloni è costretta all'abiura

Valerio Valentini

La premier si schierò contro le nuove regole europee proposte dalla Commissione. "Mai più austerity".  Ma al Mef temono che il sabotaggio dell’accordo renda ancora più proibitiva la Nadef. L’avviso di Dombrovskis che spaventa il governo. Il nodo del Mes

Farsele andar bene, anche se se ne è detto un gran  male. Di fronte alle nuove regole fiscali europee, Giorgia Meloni sembra destinata a ripetersi in un esercizio ormai collaudato, nei dieci mesi a Palazzo Chigi: smentire sé stessa. Quella sul Patto di stabilità pare insomma la prossima abiura obbligata. L’aveva accolta con fastidio, la premier,  la proposta della Commissione:  “Un ritorno ai vecchi parametri di austerity sarebbe anacronistico”, aveva detto. Era aprile. E tra le pretese del governo italiano c’era quella, immarcescibile, di scomputare dal calcolo del deficit le spese in “investimenti strategici”. Ma “strategici” in che senso? Be’, c’è la guerra: e dunque per Guido Crosetto, bisognava privilegiare gli sforzi per la Difesa. Però si è anche alle prese con la transizione verde: e allora Giancarlo Giorgetti rivendicava che quelle erano le uscite da non calcolare. Sennonché Raffaele Fitto spiegava che da farsi abbuonare c’erano le spese per il cofinanziamento nazionale ai progetti di coesione europea. E solo a fronte di questo ripensamento da parte di Bruxelles, trapelò da Palazzo Chigi, si sarebbe acconsentito alla ratifica del Mes. Solo che ora che s’approssima il varo del nuovo Patto di stabilità, Meloni potrebbe ritrovarsi a dover dare il suo via libera alle nuove regole – oltre che al Mes – senza poter ottenere nessuna di queste pretenziose concessioni.

Se ne parlerà, ufficialmente, all’Ecofin di ottobre. Sarà quella la riunione decisiva per capire cosa fare. E nonostante gli opposti estremismi – di qua Italia e Spagna che chiedono minore rigore, di là la Germania a spingere perché quel rigore venga rafforzato – lo scenario più verosimile, a detta dei diplomatici italiani che a Bruxelles stanno da tempo sondando gli umori delle varie delegazioni, è quello di una accettazione della proposta avanzata in primavera dalla Commissione. Accettazione non entusiastica, si dirà, dunque fondata su un’intesa fragile: e tuttavia questa prospettiva è l’unica che offra a tutti la garanzia della certezza delle regole. In mancanza di un accordo in autunno, infatti, si aprirebbe un altro conflitto tra gli stati membri, e questo forse ancor più surreale: bisognerebbe stabilire, cioè, che regole transitorie adottare nell’attesa di definire le nuove regole definitive.

“Ma a quel punto se ne riparlerebbe dopo le elezioni europee, coi nuovi equilibri e i nuovi rapporti di forza”, dicono, baldanzosi, ai vertici di FdI. E però, pur ammettendo che davvero dopo il voto di giugno ci sarebbero le condizioni politiche, a Bruxelles, per stravolgere il quadro normativo fiscale, va detto che se davvero l’Italia puntasse al sabotaggio del negoziato rischierebbe davvero tantissimo. Infatti, a detta di Valdis Dombrovskis, il vicepresidente della Commissione che insieme a Paolo Gentiloni ha definito la proposta del nuovo Patto di stabilità, “in mancanza di un nuovo quadro stabile non si può far altro che tornare alle uniche regole che abbiamo”, cioè quelle in vigore prima che la pandemia del Covid e la guerra in Ucraina arrivassero a imporre una sospensione dei vincoli.

Si aprirebbe dunque una trattativa che si preannuncia complicata, dove l’Italia dovrebbe negoziare dalla non invidiabile posizione di chi, se non ottenesse il congelamento delle regole sperato per il 2024, semplicemente rischierebbe il collasso: col debito pubblico che ieri, come certificato dalla Banca d’Italia, ha toccato il nuovo record di 2.843,1 miliardi in valore assoluto, e che resta il secondo più alto dell’Eurozona, dopo la Grecia, in rapporto al pil (143,5 per cento, a fronte di una media del 91,2), l’Italia si ritroverebbe a battagliare con l’acqua alla gola, con la ghigliottina del vecchio vincolo della riduzione di un ventesimo l’anno della quota superiore al 60 per cento del pil. E, nel contesto di questa incertezza, si dovrebbe varare una legge di Bilancio che comunque non potrebbe che tenere conto degli scenari peggiori sul fronte del negoziato per il Patto di stabilità, onde evitare sanzioni quando poi questi scenari dovessero concretizzarsi.

Forse è per questo che a tifare per la tregua, e dunque per l’accoglimento della proposta della Commissione, sono soprattutto i tecnici del Mef, impegnati nella definizione di una Nadef che non ammette spazio per azzardi, coi margini risicati che ha. E non è un caso che proprio da Via XX Settembre si faccia notare – in controtendenza rispetto alle letture catastrofiste di chi, in FdI, descrive il nuovo Patto di stabilità proposto dalla Commissione come “un ritorno all’austerity” – che già il Def di aprile traccia delle prospettive di finanza pubblica perfino più prudenti di quelle che il nuovo patto prescriverebbe. Una variazione strutturale dello 0,9 per cento nel 2024, e di quasi due punti fino al 2026, con l’impegno a una riduzione del deficit rispetto al pil, nello stesso periodo, dal 4,5 al 2,25 per cento; un saldo primario, dunque al netto degli interessi passivi, che migliora di 2,8 punti, sempre entro il 2026, e un percorso di rientro dal debito che, seppure minimo, è costante, dal 142,1 al 140,4 per cento.

Tutto ciò non impedirebbe all’Italia di finire sotto osservazione, essendo il deficit attuale superiore al 3 per cento, ma il nuovo Patto offrirebbe il vantaggio di poter negoziare bilateralmente con la Commissione un percorso di rientro dalla spesa che in fondo non sarebbe molto diverso rispetto a quello già contemplato nel Def. Ed è per questo che, al dunque, la soluzione più indolore, per Meloni, sarebbe quella di riconoscere che sì, il nuovo Patto conviene all’Italia. Ci sarebbe, certo, l’inconveniente politico di dover ammettere che nessuna concessione è stata strappata in cambio della ratifica del Mes (di cui si riparlerà a ottobre): ma forse, di fronte allo spauracchio di una legge di Bilancio proibitiva, anche i capricci propagandistici dell’antieuropeismo più impenitente potranno essere accantonati.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.