Liti coniugali

Renzi e Calenda: ma fate “sul serio”?

Salvatore Merlo

Da Garibaldi al Terzo polo. Il richiamo alla "serietà" è la cosa più comica della storia italiana

Propone il premierato, che non piace a Calenda. Sorride quando parla di Richetti, che è il vice di Calenda. E quando accenna al salario minimo lo fa così: “E’ la proposta della Cgil e di Conte che anche altri leader hanno firmato”. Altri leader. Cioè Calenda. E allora alla fine della pirotecnica conferenza stampa tenuta ieri da Matteo Renzi, più delle sue proposte per l’Italia, forse resterà questo: l’ombra di Calenda, assieme  al riverbero del litigio sul Twiga  e al ricorso alla parola “sul serio” che Renzi ha utilizzato per convocare la sua conferenza stampa, richiamando alla necessità di discutere delle cose davvero importanti.

“Sul serio”,  dunque. Che per sapienza del destino era anche il claim della campagna elettorale di Calenda sindaco di Roma. Sul serio. Appunto. Ma questi due fanno sul serio? In Italia il ricorso al campo semantico della serietà è stato sempre piuttosto ambiguo, per così dire. Quantomeno assai problematico. Il primo a dire agli italiani di essere seri fu probabilmente Garibaldi nel 1849 durante la difesa della Repubblica Romana. Il generale apparì su un balcone con quel buffo copricapo che sembrava un berretto da notte, con la camicia rossa, il foulard azzurro, il poncho e una miriade di pendagli e medagliette che gli ballonzolavano sul petto fino alle caviglie. Così conciato, nella divisa dei caudillos sudamericani, una cosa che a Roma doveva apparire all’incirca come un travestimento di carnevale, egli pronunciò il suo appello alla serietà.

E dunque, ben prima che Renzi e Calenda si fronteggiassero “sul serio” nel campo dei lettini e degli ombrelloni del Twiga, prima che ci intrattenessero con la loro loquela sismica, la serietà in Italia era già materia di comicità. Adesso noi non sapremmo dire come andrà a finire questa tormentata vicenda coniugale, ma non possiamo non registrare gli inviti sommessi che arrivano, sia a Renzi sia a Calenda, da parte di diversi amici, sostenitori, simpatizzanti e collaboratori. Costoro li invitano a coltivare una qualche avarizia di sé, una certa ripugnanza a concedersi al teatro, a una forma diciamo di contegno, e soprattutto a non parlare mai più l’uno dell’altro. Ma stavolta, sia chiaro: sul serio. Sicché ci viene in mente quel pio sacerdote che stava confessando un deputato del Terzo polo.

Sa padre – diceva il penitente – la ragazza mi piace, è carina, è buona…”. “Sposateve”, sposatevi, rispondeva il confessore. “Ma c’è l’inconveniente – continuava l’altro – che litighiamo spesso…”. “Lassateve”, lasciatevi, suggeriva allora il prete. “Eh sì, ma ci dispiace perché forse saremmo felici…”. “E allora sposateve”, ripeteva il religioso. “Ma se poi tutto si risolve in un fallimento?”. “Figlio mio – sbottava a questo punto quel sant’uomo – sposateve, lasciateve, ma nun me rompete più li cojoni”. Ecco. Si trattava sicuramente di un confessore ispirato da Dio, ma persino lui, come si vede, non ne poteva più di ulteriori chiarimenti tra Renzi e Calenda. Sul serio.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.