Lorenzo Guerini (LaPresse)

l'intervista

Guerini ci spiega perché “abbandonare il Niger sarebbe un errore”

Valerio Valentini

Il golpe, la Wagner, l’Ue. Il presidente del Copasir avverte Meloni: “Non lasciamo ad altri l’iniziativa nel Sahel”

L’accidia è un lusso che non possiamo permetterci. “La distrazione, l’idea che quel che avviene in Niger non ci riguarda, sarebbe fatale”. Dunque:  all’erta. “Perché in Sahel si misura la reale ambizione dell’Europa in tema di sicurezza”. E un po’ si misurano pure quelle di Giorgia Meloni, di ambizioni, quelle che vorrebbero l’Italia attore decisivo in Africa e che ora, pesate dalle realtà, impongono risolutezza. Per cui, col governo piuttosto silente, e da giorni, Lorenzo Guerini, presidente del Copasir, offre la sua analisi. “Chi mi conosce sa che apprezzo la prudenza. L’Italia in Niger ha saputo aprirsi spazi anche per un atteggiamento rispettoso della realtà locale. Ne sono testimone diretto: nei tre anni da ministro la nostra presenza lì, militare e no, è cresciuta grazie alla nostra serietà. Ma ciò non significa cedere alla tentazione di lasciare solo ad altri l’iniziativa. Bisogna portare il nostro contributo per superare questa crisi”.

  
Un rischio che Guerini intravede, dunque: il rischio del cedere al precipitare degli eventi. In un’area del mondo, il Niger, che solo apparentemente è remota rispetto agli interessi italiani. “Al contrario. Ormai da alcuni anni la frontiera meridionale dell’Europa si è spostata a sud nel Sahel. Regione in cui diverse sigle terroristiche di ispirazione islamica, da Isgs ad Aqmi, da Jnim a Boko Haram, flagellano le popolazioni sfruttando le situazioni di estrema povertà di quei paesi e di fragilità politica. In una regione, peraltro, in cui ci sono rotte utilizzate dai trafficanti di esseri umani e non solo. E in cui il Niger rappresenta, e spero di non dover coniugare il verbo al passato, un’esperienza democratica, seppur tra mille difficoltà, con un governo eletto e  un atteggiamento collaborativo verso l’occidente. Aggiungo, poi, che lì ci sono presenze di assetti militari importanti: francesi, anzitutto, ma anche italiani e di altri paesi europei, oltre a quelli americani”.

 
Presidi da non smantellare, quindi? “Penso sia necessario mantenere la nostra presenza militare in Niger. Il Mali ci insegna che quando ritiri questi assetti poi altri attori prendono il tuo posto. Certo l’attenzione alle condizioni di sicurezza dei contingenti deve essere massima”.

  
Il Mali, appunto, e prima ancora il Burkina Faso. Sembra un film già visto, da quelle parti, con la Russia che estende i suoi interessi tramite la Wagner e l’Occidente, l’Europa, che arretrano. “L’innesco del colpo di stato in Niger è da ricercare anzitutto in situazioni interne. A partire dall’intenzione del presidente Bazoum di sostituire il comandante della Guardia presidenziale, il generale Tchiani che è stato il capo dei golpisti e ora è il capo della giunta militare. E non è ancora del tutto chiara la posizione  dell’ex presidente Issoufou. È chiaro però che il rovesciamento di Bazoum, puntando anche sui sentimenti antifrancesi nella regione, offre una situazione favorevole a chi, come Wagner, è interessato all’instabilità del Sahel. Anche per questo la comunità internazionale, ma anche l’Ecowas africana, hanno condannato il colpo di stato e continuano a riconoscere Bazoum come unico legittimato a guidare il Niger”.

  
La prospettiva di vedere arrivare anche a Niamey gli uomini di Prigozhin è dunque concreta? “Oggi Wagner è sicuramente indebolita e bisognerà capire cosa sarà dopo ciò che è successo in Russia qualche settimana fa. Per quanto mi riguarda non ho neanche certezze su quale sia oggi la forza di Prigozhin. Ma certamente le bandiere russe sventolate in questi giorni nelle manifestazioni di piazza a Niamey ci dicono che il pericolo è più che reale e che si corre il rischio di veder replicato in Niger ciò che abbiamo già visto in Mali o anche in Repubblica Centrafricana e in Burkina Faso. Rischio che va assolutamente evitato: anche per questo non possiamo permetterci di abbandonare Niamey”.

  
E però, se è vero che il Niger è, di fatto, l’ultimo avamposto occidentale nel Sahel, c’è da chiedersi come sia stato possibile, per l’Europa e la Nato, cedere in modo così consistente sotto la pressione di altri attori attivi nell’area? “Se c’è un luogo in cui l’Europa può e deve passare dalle parole ai fatti questo è proprio il Sahel. Con tutti gli strumenti di cui l’Ue dispone: non solo presenza militare per contrastare il terrorismo e addestrare le forze di sicurezza locali, ma anche, e soprattutto, con investimenti significativi per lo sviluppo economico di quelle regioni afflitte da povertà rese ancora più estreme dal terrorismo stesso ma anche dalle drammatiche conseguenze del cambiamento climatico. E dallo sfruttamento, di cui l’Europa non è esente da responsabilità, delle risorse di quei paesi. C’è bisogno invece di rafforzamento delle istituzioni locali, di sviluppo economico e sociale, di sostegno nella lotta al terrorismo. Poi, certo, come chiede da tempo l’Italia è necessaria attenzione al fianco sud delle organizzazioni di cui facciamo parte: Ue e Nato”.

  
E certo il governo Meloni pare ansioso di coglierla, questa sfida africana. Sempre a condizione di essere davvero all’altezza di questa responsabilità, specie dopo il progressivo disimpegno francese in quell’area. “Confesso che al di là della dimensione energetica, tra l’altro in assoluta continuità con quanto impostato dal governo Draghi, non ho ancora ben capito cosa ci sia dietro al titolo del più volte evocato ‘Piano Mattei’. Ciò che però credo sia innegabile è che nessuno può immaginare di agire da solo in quelle regioni. Sarebbe velleitarismo puro. Torno al ragionamento di prima: tocca all’Europa misurare nel Sahel la propria ambizione. E, aggiungo, la propria credibilità”.

  
Tanto più che chi, come Putin, vuole giocare il ruolo di grande protettore degli interessi africani, in verità, col rifiuto di rinnovare l’accordo sul grano, gioca a fomentare le tensioni sociali ed economiche di quella regione, di fatto condannandola a una fame peggiore di quella che già attanaglia gran parte del continente. “Certo, il fallimento strategico dell’aggressione russa all’Ucraina si misura anche in Africa. La crisi del grano, diretta conseguenza dell’ingiustificata guerra di Putin all’Ucraina, ne è una testimonianza. Che si è fatta sentire anche nel vertice Russia-Africa, che non mi sembra sia stato un successo per Putin, di questi giorni. E’ uno spazio di responsabilità che si apre per l’Europa, a patto di volerlo riempire”.
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.